L’accusa
sarebbe ben precisa.
«Pur
essendo a conoscenza della situazione di pericolo – si
legge nelle carte del Pubblico ministero Baldo Pisani – indebitamente ometteva la predisposizione presso il centro di via
Tenente Casale, struttura ad elevato rischio, di un sistema di
sorveglianza tecnico».
E,
a causa di ciò, «derivava
come conseguenza non voluta la morte di Paola Labriola», la
psichiatra ammazzata con oltre 70 coltellate da un suo paziente,
Vincenzo Poliseno, la mattina del 4 settembre 2013, nel suo Centro di
igiene mentale a Bari.
Per
questo motivo, allora (presunta violazione dell’articolo 586 del
Codice penale), Domenico Colasanto, all’epoca dei fatti direttore
generale della Asl di Bari, rischia di essere processato, anche se
l’ultima parola spetta al Giudice per le indagini preliminari, che
dovrà accettare o meno la richiesta dell’accusa.
L’ex
vicesindaco bitontino era finito sotto inchiesta – e sospeso
dall’incarico per volontà dell’allora presidente della Regione Nichi
Vendola – nelle settimane successive il tragico episodio, allorché
la procura di Bari aveva
avviato indagini sulle presunte responsabilità della Asl relative
alla sicurezza nei Centri di salute mentale.
Non
è tutto. Colasanto, infatti, è accusato anche di falso per non aver
predisposto per tempo, e poi anzi falsificato, i cosiddetti Dvr, i
documenti di valutazione dei rischi.
L’assassino
materiale, invece, è stato condannato a 30 anni di reclusione dopo
il processo di primo grado, celebrato con il rito abbreviato.