Due sere fa, presso l’auditorium “De Gennaro“, si è tenuta la presentazione del bel libro “Domenico Saracino, un laico cristiano nella realtà sociale“, edito da Quorum, dedicato al grande professore di storia e filosofia del Liceo classico “Sylos” ed ex sindaco della città, a dieci anni dalla sua morte.
Dopo i saluti di don Vito Piccinonna, parroco rettore della Basilicata dei Santi Medici, e del dott. Amedeo Urbano, presidente della Fondazione Villa Giovanni XXIII, si sono susseguiti gli interventi preziosi del prof. Michele Giorgio, che del docente ha tracciato una biografia minuziosa, del prof. Enzo Robles, che del testo ha firmato l’acuta prefazione, del sen. Giovanni Procacci, che ha griffato la postfazione appassionata, e del prof. Nicola Pice, rigoroso curatore dell’opera. Commosso il ricordo della professoressa Rosa Calò, assessore del Comune di Bitonto ed ex allieva di Saracino, e puntuali le parole di don Gianni Giusto, vicario episcopale di Bitonto-Palo del Colle.
Fra i relatori, doveva esserci anche Monsignor Francesco Savino, Vescovo di Cassano all’Jonio, impossibilitato ad intervenire per un brutto attacco influenzale. Tuttavia, è stati presente con un pensiero, profondo e catturante, che recepiamo e volentieri pubblichiamo.
“Caro professore,
o, se me lo consenti, caro Minguccio.
Questo pomeriggio, a dieci anni dalla tua morte, sarai ricordato con la presentazione di un libro che raccoglie, oltre a riflessioni sulla tua personalità, testimonianze sul tuo impegno in politica, nella chiesa e nella scuola, come educatore di uomini e di donne che, a vario titolo, ti hanno incontrato.
Avrei voluto esserci anch’io, ma l’influenza me lo impedisce e quindi ho pensato di scriverti una lettera cercando di porre domande che scaturiscono dalla tua poliedrica e appassionata vicenda tra noi.
Sento di dirti grazie per quello che sei stato perché, senza ipocrisia e infingimenti, si poteva anche “rompere” con te, quando si dialogava, ma non sei stato mai indifferente.
Pensando ad un vero dialogo con te, ti chiedo quali sono state le motivazioni alla base del tuo impegno. Tu, “figlio spirituale” del prof. Lazzati, hai vissuto la vita come vocazione, come una chiamata da parte di Dio e la tua.
Una chiamata, come possiamo leggere tra i tuoi scritti, che si è svolta “in modo strano”. Infatti tu dici: “Ricordami che sei stato tu a chiamarmi e che se venissero meno o si rivolgessero contro di me, o divenissero fredde e indifferenti tutte le persone che mi hanno aiutato, io non devo ritirarmi, perché la mia vocazione sei tu. Gesù, tu conosci le mie tentazioni quando vedo la freddezza di chi mi ha aiutato tanto, chi fa il cammino con me, sacerdoti, superiori ecc… io ho paura di me e tu conosci la mia debolezza. Sostienimi in ogni modo e come credi purché io rimanga unito a te e alla Madre tua, così come per fede si unirono i Magi”.
La tua “anima” è stata luogo di combattimenti interiori e spirituali, perché spesso la tua sensibilità era talmente eccedente che bastava poco perché tu venissi “provato”. Ogni ferita è divenuta, poi, kairotica, rivelandosi come “grazia”. Potrei dire che la tua spiritualità si è basata sulla kenosi del tuo “io” perché, particolarmente nell’agorà politica, sei stato consapevole che l’“io” non controllato rischia di travolgere la vita stessa, mondanizzandola e adeguandola al potere o ad ogni idolatria. Sono certo che la preghiera quotidiana, soprattutto serale, nonché la partecipazione all’Eucarestia mattutina, per te erano non solo necessarie ma indispensabili per sperimentare il rapporto drammatico fra legge e libertà.
L’apostolo Paolo è stato il tuo paradigma del vivere secondo lo Spirito e del fare di Cristo il fondamento, la ragione e il fine della vita. Fuori di questa chiave di lettura il tuo impegno politico potrebbe essere equivocato e venire interpretato come mera esperienza di potere.
Hai voluto vivere da laico chiamato a santificarsi nel mondo, abitando le realtà penultime, testimoniando la non facile “obbedienza al cielo e alla terra”, alla Chiesa, difendendo la laicità della politica e la tua castità, in quanto consacrato, hai cercata di viverla seguendo e inseguendo quella straordinaria e illuminante intuizione di un grande uomo dello spirito, un gesuita, a te molto caro, padre Rossi De Gasperis, che indicava la castità per “amare gli altri col cuore pieno e le mani vuote”.
Tra i tuoi scritti che ci rimangono come eredità preziosa, scelgo questo:
“La mia vita, Signore, in me, la dai secondo per secondo. Spesso penso a te, perché accompagni le mie azioni, i miei desideri, cose che ritengo come mie, mentre nemmeno il respiro è mio. Quando capirò ciò? Santa Teresa parla tante volte di questa dipendenza da Dio: in lei è vita e in me ragionamento! La santa carmelitana dice che nei rapimenti mistici l’anima non più parla, né opera da sé, non di tutto si prenda cura questo sovrano monarca. Gesù mio, quando mi penetrerai, spossessandomi e permettendomi veramente di consegnare le chiavi della mia volontà al Padre, come tu le consegnasti nel tuo ingresso nel mondo?”.
Tale meditazione della tua anima pensante in colloquio intimo con il Divino Maestro, mi consente di porre alcune domande di cui dobbiamo noi cercare le risposte su quei “mondi vitali”, per dirla con il sociologo a te caro Achille Ardigò, nei quali la vita autentica cristiana è sempre a rischio.
Quanto siamo capaci di far fruttificare la tua eredità spirituale in questo momento storico socio-politico di Bitonto, la tua città, per la quale ti sei speso? Com’è possibile declinare davvero i principi del cattolicesimo democratico, il dossettismo, il moroteismo, il degasperismo?
Perché spesso, e lo tu lo sai, è prevalsa l’etica del principe di Machiavelli? L’etica di Max Weber? L’etica dell’utilitarismo?
Quanto a me, ricordo bene le tue obiezioni, spesso incomprensibili per me, a quanto andavo realizzando con la comunità del Santuario sul progetto socio-sanitario che non poche sofferenze mi ha procurato. Ti facevo notare che anche a te, quando hai sognato la trasformazione della Casa di Riposo in Villa Giovanni XXIII, non poche sofferenze, quella trasformazione, ti aveva procurato.
La mia generazione è stata testimone di molte divisioni tra i cattolici impegnati nel mondo. Tali divisioni, per molti incomprensibili, si spiegano con il fatto che esse obbedivano più a logiche mondane che non alla “convivialità delle differenze”.
Ho iniziato a dirti grazie e voglio concludere rinnovando la mia gratitudine, a te, caro Minguccio, che ora vivi il “tempo senza fine”, il tempo dell’eternità.
E con le parole del Libro della Sapienza ripeto che “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio!” ( Sap 3, 1). E tu, nello scorrere del tempo e degli eventi, hai saputo, comunque, dire Amen.
Ti dedico, come saluto, un testo che appartiene alla raccolta “Vivere il tramonto” del camilliano don Arnaldo Pangrazzi.
La vita
Quando la morte bussò alla mia porta
la pregai in ginocchio di non entrare,
ma lei entrò senza esitare.
“Altre volte io venni in questa casa” disse
“E sempre mi accogliesti.
Venni vestita di verde,
cosparsi di fiori il tuo glicine,
profumai il tuo giardino, lo bagnai di rugiada,
mi chiamasti natura.
Venni vestita di bianco,
feci brillare i tuoi occhi,
sorridere tua moglie e i tuoi figli,
mi chiamasti letizia.
Venni vestita di rosso,
tremò il tuo cuore, pregasti,
qualcuno andò via, altri ti dissero
parole buone, mi chiamasti dolore.
Venni vestita di luce
E ti sentisti più vivo, più vero,
ti sembrò che ogni cosa era più cara,
mi chiamasti amore.
Ora, perché mi vedi vestita di nero
credi che io spezzi, interrompa la vita.
Mi credi nemica di ciò che tu ami.
No, non guardare il vestito.”
Non parlai, lei prese per mano
la mia sposa e si avviò.
Allora gridai: Qual è il tuo nome?
Rispose la morte, di nero vestita:
“Il mio nome è uno solo, sono la vita”.
don Ciccio, Vescovo
P.S. Affido questa lettera alla cara sorella Annina, vera custode di Minguccio.