Carissimi,
la fine dell’anno è un tempo sospeso, un varco tra ciò che è stato e ciò che sarà, che ci invita a sostare, a riflettere e a custodire memoria.
È un’occasione per farsi custodi del tempo, raccogliendo i frammenti di un anno che scivola via, con il suo intreccio di sfide, dolori e germogli di speranza.
Eppure, non possiamo ignorare come il 2024 abbia visto crescere in modo preoccupante ciò che possiamo definire esaltazione della banalità.
La banalità, nel senso più profondo, non è solo una questione di superficialità o leggerezza. È un male sottile, che si insinua laddove il pensiero cede il passo all’abitudine, e il senso delle cose si smarrisce nella ripetizione meccanica. Hannah Arendt, nella sua riflessione sulla banalità del male, ci ha mostrato come il male più terribile possa scaturire non tanto da una volontà perversa, ma da un’assenza di pensiero critico, da una passività che accetta l’ordine delle cose senza interrogarsi. La banalità, in questo senso, è un anestetico dell’anima, che ci tiene intrappolati in una routine priva di profondità.
Anche Søren Kierkegaard, con la sua analisi della disperazione, ci ricorda che dietro l’apparente normalità può celarsi una vita priva di direzione, incapace di aprirsi all’eterno. La banalità non è solo un difetto culturale: è una condizione spirituale che svuota il senso della vita, privandola di tensione e significato.
In modo simile, Milan Kundera, riflettendo sul kitsch, ci mette in guardia contro un mondo che si rifugia nel già visto, nel già detto, dove ogni complessità viene semplificata fino al punto di dissolversi. La banalità è il regno del superficiale, dove tutto è ridotto a consumo, anche i sentimenti e le relazioni.
Come cristiani, siamo chiamati a opporci a questa deriva con il logos, la parola che illumina, che apre alla verità e al significato. Romano Guardini ci invita a riscoprire nella fede “la più alta forma di pensiero”, perché essa ci spinge a guardare oltre l’immediato e a scavare nelle profondità della vita. In un tempo che celebra la mediocrità, la nostra testimonianza deve essere un richiamo alla profondità, alla riflessione, alla speranza che abita ogni frammento della realtà.
A questa esaltazione della banalità si accompagna quella che potremmo definire una deflazione delle aspettative: abbiamo smesso di credere nel futuro, di progettare insieme, di sognare. La paura e l’incertezza hanno eroso il senso di comunità, lasciandoci frammentati, isolati. Eppure, proprio in questa frammentazione, siamo chiamati a riscoprire il valore della responsabilità, a ritrovare la capacità di immaginare un domani che sia abitato dalla speranza.
Il 2025: un anno di responsabilità
L’anno che si apre è segnato dal Giubileo della Speranza, un tempo straordinario che ci invita non solo al pellegrinaggio, ma ad un risveglio profondo dell’anima e delle scelte. Al centro di questo tempo speciale, una parola si erge come chiave di lettura e di vita: responsabilità.
Essere responsabili significa, innanzitutto, rispondere. Rispondere alla chiamata di Dio, certo, ma anche al grido del mondo, al richiamo della storia, alle esigenze del nostro tempo. Dietrich Bonhoeffer ci ricorda che “la responsabilità non è mai astratta, ma concreta; non è un’idea, ma un atto”. Essa ci chiede di uscire dall’indifferenza, di scegliere, di prendere posizione.
Eppure, il termine responsabilità ha una risonanza che va oltre il perimetro della fede cristiana. È un appello universale, che interroga ogni persona sul suo rapporto con il mondo. Essere responsabili significa riconoscersi parte di un tutto, sentire il peso e la bellezza di ciò che ci lega agli altri e alla realtà che abitiamo. In un’epoca segnata dal crollo del noi e dall’affermarsi di un io ipertrofico, responsabilità è accettare che le nostre azioni – o le nostre omissioni – hanno conseguenze, che ogni scelta ha un impatto che supera la nostra individualità.
Il filosofo Hans Jonas, nel suo celebre Principio di responsabilità, ci invita a riflettere sulla necessità di un’etica orientata al futuro, capace di tener conto non solo del presente, ma anche delle generazioni che verranno. “Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di una vita autentica sulla terra”, scrive Jonas. È un principio che ci invita a guardare oltre noi stessi, a pensare al bene comune, a costruire un mondo in cui giustizia, equità e dignità possano fiorire.
Responsabilità, dunque, è anche custodia: custodia del creato, del tempo che ci è dato, delle relazioni che ci legano. Come ci ricorda Papa Francesco nella Laudato si’, la responsabilità ecologica non è separabile da quella sociale: “Non ci sarà una nuova relazione con la natura senza un essere umano nuovo”. Questo ci chiama a un cristianesimo incarnato, fatto di gesti concreti, di solidarietà vissuta, di una Chiesa che non rimane chiusa nelle sue sacrestie, ma si fa casa per tutti.
Ma la responsabilità non si ferma alla dimensione collettiva. Essa è anche personale: è il coraggio di interrogarsi sulle proprie scelte, di assumere la propria libertà come un dono e un impegno. Martin Buber, grande pensatore del dialogo, ci insegna che responsabilità è entrare in relazione autentica con l’altro, riconoscerlo come un tu che interpella e richiede risposta. Non esiste responsabilità senza relazione; non esiste libertà senza il legame con chi ci sta accanto.
E allora, carissimi, il 2025 sia per tutti noi un anno di responsabilità vissuta come atto di fede e di umanità, come scelta di solidarietà e di costruzione. Che sia l’anno in cui riscopriamo il valore della nostra libertà non come privilegio, ma come servizio; in cui torniamo a credere che ogni gesto, ogni parola, ogni scelta conta, perché incide sul mondo e lo trasforma.
La speranza come virtù e visione
In questo contesto, la speranza non può essere ridotta a un sentimento passeggero, a un vago ottimismo. La speranza è una virtù teologale, un atto di fiducia radicale in Dio e nella storia. Václav Havel, scrittore e dissidente ceco, ci offre una definizione illuminante: “La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha senso, indipendentemente da come andrà a finire”. La speranza non guarda solo al risultato, ma alla fedeltà al cammino, alla verità intravista e perseguita.
Questa visione si intreccia con la capacità di immaginare un mondo diverso, come suggerisce Italo Calvino nelle sue Città invisibili. Marco Polo racconta a Kublai Khan città che non esistono, ma che aprono la mente a possibilità inesplorate. La speranza è questo: saper vedere l’invisibile, intravedere possibilità laddove tutto sembra chiuso. Calvino ci insegna che “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, ma quello che già è qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Siamo chiamati, come cristiani, a scegliere il secondo modo, a riconoscere i segni del Regno che cresce in mezzo a noi, a dare spazio alla speranza.
Ma perché fermarci qui? La speranza è un valore che travalica i confini della fede cristiana, un principio universale che interroga ogni essere umano. Non importa quale sia la nostra convinzione religiosa o visione del mondo: la speranza è la forza che ci spinge a immaginare un futuro diverso, a costruire ponti dove altri vedono muri, a credere che il cambiamento è possibile.
In questo senso, la speranza non è una prerogativa esclusiva di chi crede in Dio, ma un appello che tocca chiunque desideri un mondo più giusto e umano.
Che tu creda in Dio, nella forza della comunità o nella possibilità del progresso umano, la speranza è ciò che ci permette di vedere oltre le ombre del presente, di immaginare città invisibili, di riconoscere che, anche nelle difficoltà, esistono frammenti di luce da custodire e moltiplicare.
Un anno di gesti radicali
Essere portatori di speranza significa compiere gesti radicali: perdonare dove sembra impossibile, costruire pace in mezzo al conflitto, denunciare le ingiustizie senza paura. La radicalità non è estremismo, ma ritorno alle radici, alla sorgente della nostra fede. È un richiamo potente a uscire dall’indifferenza, a prendere posizione, a scegliere con coraggio il bene, anche quando questo comporta il rischio del rifiuto o dell’incomprensione.
I gesti radicali sono quelli che non si limitano alla superficie, ma scavano in profondità, spezzano le catene dell’ingiustizia e si fanno accoglienza del grido disperato del povero, dello straniero, di chi vive ai margini. Sono gesti che entrano senza timore nelle cattedrali del dolore – i luoghi della sofferenza che spesso restano invisibili agli occhi del mondo – per portare consolazione e speranza, per farsi segni di un mondo che può essere diverso.
La radicalità dei gesti non si misura nella loro grandezza, ma nella loro capacità di essere liberatori, di spezzare le logiche della paura e dell’egoismo. È il coraggio di ascoltare il grido di chi non ha voce, di farsi prossimo di chi è abbandonato. Come scriveva il profeta Isaia, “sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo” (Is 58,6). Questi sono i gesti che costruiscono un mondo più giusto, che trasformano il cuore e la società.
Gesti radicali non solo perché rompono con le logiche della banalità, ma perché incarnano il Vangelo nella quotidianità, rendendo visibile la speranza in mezzo alla disperazione. Come ci ricorda Papa Francesco, “la speranza è audace, sa guardare oltre il comodo, oltre ciò che è sicuro, verso grandi ideali”. Questa audacia è la vera radicalità: non temere di mettere in gioco noi stessi, di lasciare che la nostra vita diventi fermento di giustizia, semi di un Regno che cresce in mezzo a noi.
Un augurio e un interrogativo
Carissimi,
il mio augurio per il 2025 è che sia un anno in cui ciascuno di noi possa ritrovare il coraggio di intravvedere possibilità nascoste. Non si tratta solo di guardare oltre, ma di riscoprire il senso profondo del nostro cammino.
Il termine “senso” racchiude una ricchezza straordinaria: etimologicamente, ci richiama al “percepire”, al “provare”, ma anche all’“orientare”, al trovare una direzione. È ciò che ci permette di dare significato a ciò che viviamo e di discernere la via da seguire. In un tempo che spesso ci disorienta e ci frammenta, il mio augurio è che il 2025 sia un anno in cui ciascuno di noi ritrovi il senso delle proprie azioni, delle proprie relazioni, del proprio essere parte di una comunità più grande.
Che sia, dunque, un augurio di senso: un invito a riscoprire ciò che è autentico, a riconoscere nei frammenti del quotidiano i segni di un disegno più grande, a lasciare che ogni gesto si carichi di significato, perché nulla sia banale, nulla sia vano.
Che sia un anno di comunità ritrovate, di scelte che lascino il segno, di gesti concreti e radicali che diano testimonianza del Vangelo e della speranza che ci abita.
E allora vi lascio con una domanda, un interrogativo che ci accompagni nei giorni a venire: Quale traccia luminosa desideriamo incidere nel cuore del tempo che ci è dato?
Buon anno a tutti, nella speranza che illumina, nel senso che orienta e nella fede che trasforma!
✠ Francesco Savino