Il freddo. Un nemico, un killer implacabile che storicamente ha annientato spedizioni scientifiche, ha sbaragliato interi eserciti agguerriti, da quello di Alessandro a quello di Annibale, da quello di Napoleone alle truppe italiane che, nel giugno ’40, attaccarono la Francia. Senza dimenticare le truppe italiane e tedesche decimate in Russia dal Generale Inverno.
Un nemico che, tuttavia, può trasformarsi in un prezioso amico, un amico in grado, addirittura, di salvare la vita. E in tanti, sin dalle spedizioni militari napoleoniche, si sono chiesti in che modo questo possa succedere, vedendo, ad esempio, che molti soldati, in apparenza morti, erano, invece, incredibilmente in vita. Vedendo che i soldati feriti, a cui non era riservato, come per gli ufficiali, il privilegio di essere ricoverati al caldo, sopravvivevano in misura maggiore. Vedendo come il freddo rallentava la morte dei tessuti.
È stato il tema dell’incontro di ieri, dal titolo “La freddezza del male: gli esperimenti di Dachau e la medicina moderna”, organizzato, nell’ambito della rassegna Memento, dall’Accademia Vitale Giordano, che ha visto, come ospiti Matteo Cerri, ricercatore e docente dell’Università di Bologna, e Benedetta Campanile, dell’Università di Bari.
Cosa c’entra, si dirà, tutto questo con una rassegna di eventi dedicata ai crimini contro l’umanità del ‘900? C’entra, perché, tra coloro che si sono chiesti in che modo il corpo umano reagisca all’assenza di calore, ci sono stati gli scienziati nazisti, che, nel campo di concentramento di Dachau, hanno condotto crudeli esperimenti sui prigionieri russi, per capire fino a che punto l’organismo umano potesse resistere a temperature rigidissime, condotti al fine di comprendere come limitare le perdite tra i soldati tedeschi. Esperimenti, ovviamente, fatti senza alcun consenso da parte della povera cavia, destinata a morte atroce. Un’idea distorta della scienza che, come ha sottolineato il moderatore, il giornalista Marino Pagano, si fa prima freddo scientismo e poi perversione.
«Per tanti anni i risultati di quelle ricerche siano stati, per la scienza successiva alla fine della Seconda Guerra Mondiale, un tabù, un capitolo da dimenticare» ha spiegato il professor Cerri, che su questi argomenti ha scritto anche un libro dal titolo “La cura del freddo. Come uno spietato killer naturale può diventare una risorsa per il futuro”.
Solo dopo che l’onda emotiva legata a quegli orrori si affievolì, ha aggiunto Cerri, si cominciò, se pur tra tante ritrosie e paure, a prendere in considerazione l’idea di consultare i risultati di quelle ricerche, per capire se, al di là delle modalità immorali con cui erano state condotte, avessero portato a conoscenze utili.
Una questione delicata, che ha diviso la comunità scientifica del secondo dopoguerra, come ha spiegato Cerri, risolta solo quando, dopo l’apertura, si è visto che tutta quella crudeltà non aveva portato a nuove conoscenze scientifiche.
«Non si può neanche parlare di veri esperimenti scientifici, per le modalità con cui furono condotti» ha aggiunto l’ospite, passando, quindi, a spiegare come ancora oggi la scienza studi ancora l’argomento, anche in funzione dell’esplorazione spaziale.
A concludere l’evento, la professoressa Benedetta Campanile, che ha spiegato le conseguenze di un’altra terribile patologia, il cosiddetto “piede da trincea”, che ha colpito tantissimi soldati, specialmente a partire dalla Prima Guerra Mondiale, quando la guerra di trincea costringeva chi combatteva a stare per tanto tempo in luoghi umidi, fangosi e freddi, senza la possibilità di accendere fuochi per riscaldarsi, per non essere visti dagli aerei nemici. Una patologia che portava al congelamento degli arti inferiori e, spesso, all’amputazione.