C’erano una volta, in ogni paese e città, dei teatri di umanità in cui la gente andava per recitare sé stessa, erano gli studi dei fotografi, con le loro sale da posa. Giovani e anziani, ricchi e poveri, tutti diventavano protagonisti di piccole commedie dell’arte, in cui ognuno voleva apparire come sognava di essere e non come era davvero.
Prima di immortalare i volti, i vecchi fotografi scrutavano le menti e i cuori, finendo col conoscere non soltanto i segreti del fisico dei loro clienti, ma anche qualche piega della loro anima. Commedie umane che, qualche volta, avevano un finale a sorpresa, come quella che ebbe come protagonista un fotografo bolognese che vide arrivare nel suo studio i carabinieri: a chiamarli era stato un signore di mezza età, insoddisfatto della foto tessera che, a suo giudizio, lo invecchiava. Irritato dalle infinite e ingiuriose proteste del cliente, il fotografo gli aveva strappato le foro sotto il naso.
All’inizio a mettere in crisi un mestiere antico e pittoresco, soprattutto per le foto tessera, furono le cabine automatiche, luoghi scialbi e anonimi, confessionali senza i confessori secondo una colorita definizione data da un vecchio fotografo. L’avvento del digitale ha poi mandato definitivamente in crisi l’arte dei sapienti artigiani dell’immagine. Un’autentica beffa se si pensa che questo mestiere si è spento per inedia proprio nell’era in cui la fotografia è diventata ubiquitaria e invadente. Solo che delle foto fatte con le macchine digitali ne finisce stampata una su cento, ed è come se fosse una parola pronunciata e mai scritta.
A Bitonto c’era lo studio fotografico Valla, che stava nel bel mezzo della via dei Mercanti, una strada che brulicava di negozi e botteghe, di profumi e balocchi. Il profumo era quello dei bocconotti, esposti in vetrina con qualche bottiglia di rosolio, nel laboratorio a due passi dalla chiesa del Purgatorio. I balocchi erano quelli che mi regalava un signore che chiamavo “zio Michele”. Non era un nostro parente, ma l’amicizia tra lui e mio padre era speciale, un legame forte e affettuoso. Mentre loro parlavano io mi perdevo incantato tra le mille e belle cose esposte in negozio, un’estasi da cui mi svegliavo solo quando “zio Michele” mi metteva nelle mani un’automobilina per la mia collezione.
Il “patriarca” della fotografia bitontina era il signor Michele: due occhi vispi e curiosi e un sorriso sornione sulle labbra. Quando un cliente entrava nel suo studio, lui, ogni volta, sembrava sbucare dalla penombra del suo magico regno, la camera oscura. Una semplice stanza ricavata chissà dove, con un tavolo e un ingranditore, un lavello, le bacinelle, l’acqua corrente e i pacchi di carta fotografica accanto a bottiglie di chimica che gli affumicavano le punte delle dita.
Nello studio, dalla sua sala di posa, “sfilavano” sposi, famiglie, bambini di prima comunione. Indimenticabile le foto ricordo che il signor Michele scattò a me a mio fratello Modesto: vestiti con i grigi abiti della festa e camicie inamidate, fummo messi davanti ad un grande telo bianco e accanto ad una falsa colonna di marmo. Immobili e straniti dovemmo improvvisare un mistico e innaturale raccoglimento, stringendo tra le mani un libricino di preghiere.
Lo studio di Michele Valla si trasferì poi in piazza Moro, proprio all’inizio del corso e l’attività passò nelle mani del figlio Arcangelo. Ha chiuso i battenti e si sono spente le luci delle sue vetrine (nella foto) in cui è passata la vita della città: dalle partite di calcio, alle processioni, dai comizi elettorali alle altre manifestazioni della vita sociale e politica, non c’era fatto di cronaca che non finisse nell’obiettivo fotografico di Michele Valla, con puntuale riscontro sulle pagine de “La Gazzetta del Mezzogiorno” con gli articoli a firma di Antonio e poi Franco Amendolagine.
Questo erano i fotografi di paese, la quinta autorità locale dopo il sindaco, il parroco, il maresciallo e il medico condotto. Erano i padroni dei sorrisi, perché davanti a loro i volti s’ illuminavano e forse non solo per il flash. Erano i registi dei momenti felici che restavano nella memoria, i custodi dell’identità, perché facevano i ritratti per la patente al papà, al figlio, al nipote. Erano gli officianti dei riti di comunità: di molte famiglie “immortalavano” i battesimi, le comunioni, le nozze e i funerali. Le fotografie, attraverso i ritratti dei nonni, dei genitori da piccoli, ricostruivano una storia e sottolineando questi i riti di passaggio, documentavano un evento o ravvivavano un ricordo, un’emozione.
Le fotografie sono minuziosi oggetti di memoria, il mezzo più semplice e preciso per rivisitare il tempo perduto. Il segno con cui fermare un momento irripetibile: fotografare equivale a fissare un’immagine, che non potrà più riprodursi, e farla nostra per sempre. Secondo alcuni dona l’illusione non solo di aver arrestato la fuga del tempo, ma di poter effettuare un viaggio a ritroso nella memoria, perché la foto restituisce esattamente quello che ha visto.
Alle immagini erano strettamente legate agli eventi più significativi della vita personale e familiare, testimoniavano le proprie radici, perché sentirsi parte di una storia era un aspetto fondamentale per la costruzione identitaria individuale e collettiva. Ecco perché gli archivi dei vecchi fotografi, dovrebbero essere tutelati come patrimonio dell’umanità, perché sono dei veri e propri trattati di antropologia visuale, uno straordinario veicolo della memoria di una comunità altrimenti labile e destinata a perdersi nel tramando delle generazioni.