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Home » La storia di Giuseppe Chirico, carabiniere deportato nei campi di lavoro tedeschi

La storia di Giuseppe Chirico, carabiniere deportato nei campi di lavoro tedeschi

La sua forza fisica gli permise di resistere più a lungo alla terribile esperienza. Ma la malattia lo spense poco dopo il rientro a Palombaio

Michele Cotugno by Michele Cotugno
11 Febbraio 2018
in Cronaca
La storia di Giuseppe Chirico, carabiniere deportato nei campi di lavoro tedeschi
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Nei giorni scorsi è stata celebrata la Giornata della Memoria, con incontri e iniziative per mantenere vivo il ricordo delle tragedie del secolo scorso. Abbiamo ascoltato la testimonianza del bitontino Emanuele Coviello, reduce dai campi di prigionia tedeschi e, per sua fortuna, sopravvissuto. Ma, non tutti, purtroppo, ebbero un fato così benevolo. Tanti, troppi, da quei campi non uscirono vivi. O, come nel caso che stiamo per raccontare, uscirono talmente malati e indeboliti da resistere poco tempo, prima di esalare l’ultimo respiro.

Parliamo di Giuseppe Chirico, carabiniere nato a Palombaio il 1 gennaio 1920 e morto, a soli 26 anni, il 2 marzo 1946.

Giuseppe è uno dei tantissimi militari italiani catturati dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, disarmati e deportati nei campi tedeschi di lavoro, dove sono costretti a subire vessazioni, umiliazioni e tante altre sofferenze.

È il più grande tra i suoi fratelli, fisicamente molto forte e con la passione del pugilato. Passione rimasta solo un sogno, perché la sua vita era già destinata al duro lavoro agricolo nelle campagne palmariste. La sua forza muscolare gli è di aiuto durante le faticose giornate in campagna, in cui bisogna caricare velocemente sacchi di olive dal peso anche superiore ad un quintale. Con qualsiasi condizione meteorologica.

Arrivata la chiamata alle armi, Giuseppe si arruola nei Carabinieri, ma, l’8 settembre ’43, insieme ad altri suoi commilitoni e superiori, viene arrestato e condotto in Germania in uno dei tanti campi di prigionia, assegnato al lavoro agricolo nelle campagne tedesche, che sono distanti dalle baracche molti chilometri. Da percorrere rigorosamente a piedi. Si lavora in condizioni disumane, controllati a vista dalle guardie che spesso infieriscono brutalmente sui prigionieri già debilitati a causa del freddo e della fame. Quella fame che li costringe talvolta a cercare scarti nelle immondizie. Nelle baracche non ci sono servizi igienici. Si dorme su brande con del pagliericcio e una coperta. Gli indumenti sono sempre gli stessi indossati al momento dell’arresto e non sono per nulla idonei per tutelarsi dal gelido inverno tedesco. Sopraffazioni, punizioni, percosse selvagge sono all’ordine del giorno, soprattutto quando interviene in aiuto dei compagni di prigionia più deboli, come raccontò ai familiari al suo ritorno. 

Molti degli internati muoiono per le malattie contratte a causa del freddo e delle precarie condizioni igieniche. Ma la forza fisica di Giuseppe gli permette di sopravvivere. Non senza conseguenze, tuttavia. Quando viene liberato, il suo corpo è estremamente provato dal lavoro forzato, dalla mancanza di cibo e dai continui maltrattamenti. È, inoltre, affetto da tubercolosi. Viene ricoverato all’ospedale di Budrio, nel bolognese.

Un giorno, a casa della sua famiglia, giunge una lettera, in cui è scritto che Giuseppe è gravemente malato ed è ricoverato a Budrio. Suo padre Vito si mette in viaggio per ritrovare quel figlio di cui da tempo non ha notizie. Ma, giunto a destinazione, rimane colpito e amareggiato nel vedere moltissimi giovani militari lì ricoverati e sofferenti. Preso dallo sconforto, ritorna a Palombaio senza ritrovare Giuseppe. Ma, un giorno, un telegramma avverte che il militare è in fin di vita. Questa volta il padre Vito, determinato a riprendere suo figlio carabiniere, vivo o morto, e a riportarlo a casa, ritorna a Budrio accompagnato da un altro figlio.

Trovano finalmente Giuseppe, che ritorna così nella sua Palombaio. Ma la malattia, intento, continua a divorare quel corpo già provato dalla terribile esperienza vissuta. I genitori provano di tutto per tentare di sottrarre il figlio alla morte. Costosissime cure che costringono anche a vendere parte delle loro proprietà. Purtroppo, la malattia non se ne cura e, dopo qualche mese, nel marzo del ’46, Giuseppe muore tra le braccia dei genitori.

Ai suoi funerali, la salma viene portata dai suoi fratelli, sulle spalle, in chiesa e giunti in prossimità di piazza Milite Ignoto, un ex ufficiale palmarista della Prima Guerra Mondiale pronuncia un toccante discorso commemorativo.

È oggi sepolto nel piccolo cimitero di Palombaio ed è ricordato anche sul monumento ai caduti in guerra in piazza Milite Ignoto insieme ai tanti suoi concittadini morti nel secondo conflitto mondiale.

 

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