Di Angelo Palmieri
Nella mia memoria, mio padre è un’immagine scolpita nella pietra del tempo: “Ciccillo dell’autoscuola” per molti, ma per me semplicemente “Penna Bianca”, un vezzeggiativo che amava e che nasceva dalla sua folta chioma candida, simbolo di una saggezza luminosa e mai ostentata. Era un uomo buono, un albero nodoso, saldo e protettivo nella mia vita, il punto fermo attorno al quale si avvolgeva il filo invisibile delle nostre giornate.
Non era solo un uomo forte, ma incarnava l’equilibrio perfetto tra desiderio e legge. In lui si condensavano quella capacità unica di indicare la direzione e, allo stesso tempo, lasciare spazio alla libertà del sogno, al volo dell’immaginazione. Mia madre, accanto a lui, interpretava i confini con fermezza e delicatezza, una presenza essenziale e mai scontata. Insieme, erano il fondamento della mia crescita: un dialogo tra basi solide e rami protesi verso il cielo.
Un “pater familias” autentico, erede di una tradizione popolare antica, che il destino aveva forgiato con il dolore precoce della perdita di entrambi i genitori. Quella ferita non lo aveva spezzato, ma aveva affinato in lui un’attenzione rara per le parole e i gesti.
Lo ricordo al mattino, quando il suo sorriso profondo e contagioso illuminava come una luce calda che dissolveva ogni ombra. Ogni giorno, come un rito antico, lui dispensava caffè a chiunque incontrasse. Non era solo una generosità materiale, ma un gesto che andava oltre: era un dono di attenzione, un “ti vedo” silenzioso rivolto a chiunque varcasse la soglia. Per lui, quel piccolo gesto racchiudeva una verità semplice: la bontà non ha bisogno di proclami, si manifesta nei gesti. Quelle mani solide, scolpite dalla fatica e dal tempo, erano per chiunque un rifugio e un segno di certezza.
E quante volte quelle mani hanno tenuto il Corriere della Sera o la Gazzetta dello Sport, che mi portava ogni domenica. Leggevamo insieme gli articoli, soffermandoci su dettagli apparentemente insignificanti, come se ogni parola fosse un seme capace di germogliare in un dialogo generazionale unico e irripetibile. La sua passione per il calcio, il Bitonto, il Bari, non era solo tifo: era una fiamma che bruciava di vita, una lingua comune attraverso cui imparavo il valore della condivisione.
Eppure, più dei gesti e dei ricordi, mio padre mi ha lasciato qualcosa di ancor più prezioso: l’essenza dei legami. La relazione con un padre è una trama sottile e invisibile che attraversa il tempo, un filo d’oro che sostiene, guida e a volte corregge, senza mai spezzarsi davvero. Come suggerisce Massimo Recalcati, la figura paterna è essenziale non come imposizione, ma come una presenza luminosa, un faro che orienta il figlio verso il mondo. Recalcati scrive: “Il padre è colui che insegna il limite, ma anche colui che dona lo slancio verso il desiderio.” Mio padre, con la sua presenza salda e affettuosa, incarnava entrambi: i confini di un rispetto condiviso e la libertà di esplorare, di sognare e di osare.
E oggi?
In un tempo di frammentazione e velocità vertiginosa, la figura del padre rischia di farsi evanescente. Eppure, mai come ora, abbiamo bisogno di custodi che sappiano essere luci discrete, capaci di illuminare senza accecare, di orientare senza costringere. Padri che, come Penna Bianca, insegnino la bellezza delle azioni autentiche, che sappiano coltivare legami veri, fatti di presenza e ascolto.
La loro forza non risiede nel comando, ma in una tenerezza che sorregge; una sensibilità capace di decifrare le emozioni con delicatezza, senza mai imporsi con violenza. Non nel dominio trovano il loro valore, ma nell’umiltà che accoglie e comprende. Ritrovare il padre significa riscoprire la fiducia in radici profonde e solide, da cui possano spiccare voli verso orizzonti nuovi.
Perché in fondo, il padre non è mai solo un uomo, ma un simbolo vivo: la traccia di chi siamo stati e il ponte verso ciò che possiamo diventare. Nella babele dei tempi, è un’ancora e un orizzonte, un luogo a cui tornare e da cui ripartire.