Nell’immediato dopoguerra, l’Italia, appena uscita dalla dittatura, dovette affrontare una questione molto spinosa. Una questione che, non solo era stata alla base della retorica fascista e dell’ascesa del movimento politico di Mussolini, ma che esisteva sin dal diciannovesimo secolo: quella dei confini nord-orientali del paese, contesi tra Italia e Jugoslavia (c’erano questioni aperte anche su altri confini, ma il fronte caldo era quello a nord-est).
Quando si affronta l’argomento, subito si pensa solamente all’Istria e alla Dalmazia, le regioni che furono luogo prima dell’occupazione fascista, che con la forza e la violenza cercò di attuarne l’italianizzazione, e poi, con la caduta del regime, della riappropriazione del territorio, da parte della popolazione slava. Una serie di fattori (non sempre studiati a dovere e perciò soggetti a speculazioni storiche), tra cui propositi di vendetta per le violenze e i crimini fascisti, percezione degli italiani come classe dominante contro cui lottare, oltre che come fascisti, provocò, da parte slava, episodi di persecuzione che sfociarono nell’esodo di tanti residenti e negli eccidi delle Foibe, in cui persero la vita anche alcuni cittadini di Bitonto.
Ma ad essere contese tra Italia e Jugoslavia erano anche Trieste e Gorizia. Gli jugoslavi volevano riconquistare i territori che, dopo la prima guerra mondiale, erano stati negati. Le città, poi rimaste all’Italia, alla cacciata dei tedeschi, nel maggio ’45, furono prima occupate dai partigiani jugoslavi che, nel giugno dello stesso anno, cedettero il posto ad un governo militare alleato, che le amministrò insieme a Pola, Rovigno e Parenzo, poi andate alla Jugoslavia. Una zona ancora più a sud fu amministrata dall’esercito jugoslavo. La situazione sul futuro di quelle zone era talmente incerta che la Venezia Giulia non partecipò al referendum del ’46 e ai lavori per l’Assemblea Costituente, su pressioni jugoslave.
Inevitabilmente la questione divideva i comunisti. Non solo quelli italiani, in gran parte comunque per Trieste italiana. Divideva l’intero Cominform, dopo la rottura tra Tito e l’Urss.
Nemmeno il Trattato di Parigi del ’47, che previde la nascita del Territorio Libero di Trieste e il ritorno ai confini esistenti prima del ‘38, servì a risolvere una situazione esplosiva e a placare i disordini che ci furono fino al ’54, quando con il Memorandum di Londra, Trieste tornò all’Italia. Una soluzione definitiva, poi, fu trovata con il Trattato di Osimo del ’75, che sancì per sempre la fine di ogni altra rivendicazione territoriale tra Italia e Jugoslavia, chiudendo una disputa ultracentenaria.
Ma torniamo all’immediato dopoguerra. Diffusa era la convinzione che Trieste dovesse essere italiana. E non solo lì, nella città contesa. In tutta Italia ci furono movimenti che promuovevano una causa largamente condivisa. Anche a Bitonto, dove il 6 maggio ’45 si sarebbe dovuta svolgere, nell’allora Teatro Traetta, una manifestazione per l’italianità della città settentrionale. Ma il maresciallo dei Carabinieri che in quel tempo era di stanza a Bitonto, avuto sentore di propositi bellicosi dei partiti estremisti, revocò il permesso, vietando la conferenza, per evitare disordini. «Ragioni di ordine pubblico» fu la motivazione addotta dall’ufficiale. Motivazione criticata dal redattore della Gazzetta del mezzogiorno, che ne dà notizia il 9 maggio.
«Se vi è qualcuno che osa turbare l’ordine pubblico, quel qualcuno deve essere punito; l’ordine pubblico deve essere tutelato ad ogni costo, anche contro la volontà dei cittadini. […] Rischi e pericoli debbono essere affrontati, se si vuole instaurare, in Italia, un vero regime democratico, nel quale tutti possono esprimere la propria opinione. E se non si comincia già da oggi a convincere la gente che la legge deve essere rispettata, che cosa accadrà domani, quando saranno indette le elezioni amministrative e politiche? Si impedirà agli elettori di votare? E anche in questo caso le autorità si trincereranno dietro il paravento dell’ordine pubblico?» rimprovera il quotidiano, ricordando come, a proposito della questione triestina, sia Partito Comunista che Partito Socialista avessero preso posizione a favore della causa italiana e come l’Unità avesse smentito che, dai balconi della direzione romana del Pci, fosse stato esposto uno striscione con la scritta “Viva Trieste jugoslava”. Striscione che, tuttavia, pare, secondo il cronista, fosse stato esposto a Cerignola e Lucera «anche se tra proteste e disapprovazioni».