Essendo nato dalle ceneri dello stato fascista, essendo formato dalle forze politiche che avversarono il sistema creato da Mussolini, il sistema politico che governava la neonata Repubblica non poteva che assumere l’antifascismo come valore cardine, come colonna portante per una nuova Italia (ogni stato, per durare, ha bisogno di un mito attorno al quale riconoscersi, come lo fu il Risorgimento dopo il 1861). Persino il Fronte dell’Uomo Qualunque, che pure annoverò diversi ex fascisti tra le sue fila, si considerava fortemente antifascista. Oltre che anticomunista, antipolitico e antipartitico, avversava il fascismo per diverse ragioni: Il rifiuto del mito del capo, dell’uomo provvidenziale, che opprime la folla anonima e la manda a morire in guerra solamente per soddisfare le proprie ambizioni; la contrarietà all’intervento nel secondo conflitto mondiale, manifestata già prima che questo accedesse dal fondatore, il giornalista e commediografo Guglielmo Giannini, che, (e questa è un’altra, non meno importante, motivazione), in quel conflitto perse l’amato figlio Mario.
Cosa significa dire che l’antifascismo fu alla base della Repubblica Italiana? Ovviamente in primo luogo l’esclusione di ogni possibilità di rinascita del vecchio Partito Nazionale Fascista, come ho già anticipato domenica scorsa, citando la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione Italiana, che recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48 (che stabilisce la libertà di voto, ndr), sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».
Una norma transitoria che divenne definitiva nel 1952 con la legge 645, meglio nota come “Legge Scelba”, dal nome del suo ideatore, il democristiano Mario Scelba. La Legge Scelba vieta, oltre alla ricostituzione del disciolto partito fascista, l’apologia del fascismo. Legge che comunque è sempre stata applicata in maniera poco severa, lasciando libertà di costituzione a soggetti politici che si rifacevano chiaramente all’esperienza fascista, dall’Msi.
Gli ex fascisti, che già erano stati allontanati dai loro ruoli politici e sostituiti dai membri del Comitato di Liberazione Nazionale nel ’43 e da ex partigiani (nonostante la lotta partigiana riguardò soprattutto il Nord Italia). Anche a Bitonto, dove il podestà Dragone fu sostituito dal commissario prefettizio Zaza e i primi amministratori vennero dalle forze che avevano avversato il fascismo. Limitandoci ai sindaci, per questioni di sintesi, ricordiamo che antifascista era il comunista Arcangelo Pastoressa, sorvegliato speciale durante il Ventennio, così come Angelo Custode Masciale che, giovanissimo, si iscrisse al movimento clandestino del Partito Socialista, dopo la messa al bando del partito. Lo fu anche il cattolico Nicola Calamita, nipote di monsignor Francesco Paolo Calamita, una delle voci di Radio Bari, dopo la Liberazione. Ex partigiano fu anche il democristano Pasquale Marrone, mentre il socialista Domenico Larovere fu sorvegliato speciale.
I fascisti furono esclusi dalla redazione della Costituzione, non dalla vita politica del paese con una nuova formazione, gli iscritti al Movimento Sociale Italiano.
Ma torniamo all’importanza dell’antifascismo nella nuova Repubblica. A testimoniarne quanto fosse grande l’adesione ai valori della Resistenza e dell’antifascismo è Franco Nacci che fu presidente onorario dei Partigiani di Bitonto e che, sul numero di maggio ’84 del “da Bitonto”, pubblicò un ricordo della prima celebrazione del 25 aprile, il primo anniversario della Liberazione: «Tutta piazza Marconi era gremita di gente: si piangeva di commozione, ci si abbracciava, le campane suonavano festose. Gli uomini del Comitato di Liberazione (c’era anche mio padre tra questi) commossi, fieri, esultanti s’abbracciavano. Ricordo che noi ragazzi tra la folla additavamo giovani con la divisa caki inglese che sul braccio portavano l’insegna del Tricolore e la scritta “partisan”. Vedi – dicevamo – quello è un comunista! E lo additavamo con un senso di rispetto, direi quasi di idolatria».
L’anno prima, «subito dopo l’annuncio della liberazione dell’Alta Italia – ricordò Domenico Pastoressa nell’edizione di aprile ’85 – un lungo corteo partito dal Municipio, percorse le principali vie cittadine accolto dalle acclamazioni della folla».
Pochi giorni dopo, il 3 maggio ’45, «fu organizzata e realizzata una grande manifestazione popolare con la partecipazione dei partiti rappresentati nel Comitato di Liberazione Nazionale, della Camera del Lavoro, delle scuole e dell’amministrazione comunale che era espressione del Cnl. L’amministrazione comunale che partecipò alla manifestazione era rappresentata dagli assessori Vincenzo Granieri, Nicola Calia, Giuseppe Tempesta, Giuseppe D’Acciò, Giuseppe Fano, Pasquale Solfrizzo, Arcangelo Adriani e Michele Castellano, con il sindaco Arcangelo Pastoressa. Lo stesso che, anche allora come sindaco, aveva annunciato alla cittadinanza, dopo il 4 novembre 1918, la fine della I Guerra Mondiale».
Gli ex partigiani e coloro che si erano riconosciuti nella lotta partigiana si riunivano nell’Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, nata nel 1944, che, a Bitonto, aveva sede in Largo Gramsci, tra via Michele Speranza e via Amedeo.
Ogni anno l’Anpi organizzava manifestazioni, celebrazioni, concorsi per gli studenti. Deponevano una corona di alloro al cippo che nel ’65 fu eretto (l’inaugurazione avvenne il 25 aprile di quell’anno, come ricorda la data scolpita nella pietra) in Villa Comunale dall’allora giunta guidata da Domenico Saracino (Dc).
Una stele che recita: «Fra poco non sarò più, muoio sicura di aver fatto quanto mi era possibile, affinché la libertà trionfasse».
È una frase tratta dalla lettera scritta dalla partigiana fiorentina Irma Marchiani, nome di battaglia Anty, alla sorella, poco prima di essere fucilata a Bologna dai tedeschi, il 26 novembre 1944.
L’Anpi partecipava anche ai cortei del 1 maggio, come ricorda Franco Matera, storico esponente del Partito Socialista, descrivendo la storica rivalità tra socialisti e comunisti: «Si partiva da piazza Cavour e i primi che venivano presi erano i partigiani, dalla loro sede nel vecchio carcere (prima dell’Unità d’Italia l’edificio dove oggi ci sono le officine culturali era una prigione, ndr), poi andavamo verso corso Vittorio Emanuele II, per prendere i comunisti. Le due famiglie, quella socialista e quella comunista, non si mischiavano. C’era una divisione, uno spazio».