di Donato Rossiello, Nico Fano
Giugno, siamo alle porte dell’estate e ad accalorare il dibattito politico-finanziario di inizio mese c’ha pensato l’ipotesi di default della (per ora) prima potenza economica mondiale. Gli Stati Uniti d’America, come tutte le grandi economie del caro globo terracqueo, funzionano “a credito”; esso risulta vincolato a un importo massimo (stabilito formalmente dal Congresso) che il governo federale può pagare per il debito già emesso, un limite (debt ceiling) introdotto già nel 1917 entro cui il Tesoro esercita. A dirla tutta il rischio di bancarotta degli USA aveva ragion d’essere in ambito interno, ovvero come magistrale strumento di pressione politica intestina agli schieramenti (buon gioco della maggioranza repubblicana alla Camera dei rappresentanti, con speaker Kevin McCarthy). In altri termini era un’evenienza poco plausibile accadesse. L’aumento o la sospensione del debito sono, di fatto, delle procedure legislative consuete e routinarie, delle formalità. Basti pensare che l’innalzamento del tetto solo nel 1960 è stato approvato ben 78 volte!
Le interminabili sessioni di riunione, i lunghi negoziati e le annose trattative presso la Casa Bianca hanno condotto a un esito prevedibile, nonché auspicabile: intesa di principio con l’innalzamento del debito per i prossimi due anni, in cambio di alcuni compromessi al programma d’amministrazione democratica firmato Biden. Nessun taglio al budget di 886 miliardi di dollari per la difesa, né per le cure mediche ai veterani ma vengono rivisti dei requisiti di accesso al welfare (innalzando l’età per alcune forme di assistenza da 49 a 54 anni) – ad esempio.
Ma quali sarebbero state le evenienze in caso di mancato accordo? Il governo sarebbe stato costretto a ben più ingenti tagli alle spese, inficiando l’entità di pensioni e prestazioni a scapito dei cittadini. In un contesto di per sé complesso, l’impatto delle decisioni dalla Casa Bianca sulla crescita annualizzata del PIL reale statunitense (nel terzo trimestre 2023) era compreso tra -0,3% e -6,1%. E le ricadute si sarebbero estese ovunque, dato che gli Stati Uniti rappresentano il 15% del PIL mondiale. Nel peggiore degli scenari possibili il loro contributo alla crescita globale avrebbe toccato quota -0,9%, esasperando la volatilità dei mercati.
Valutato il banco delle ipotesi possibili ma scongiurate, torniamo ai fatti… Il 3 giugno scorso (a due giorni dalla scadenza prevista) il presidente Joe Biden ha quindi sottoscritto l’intesa atta ad evitare la bancarotta americana, ponendo fine a un periodo di stallo fiscale e placando le generalizzate apprensioni per la tenuta del governo di Washington. Non sorprende che i mercati azionari nelle settimane successive all’annuncio abbiano reagito con un crescendo di ottime performance (dal 12 al 19 giugno gli indici S&P 500, DAX 30, CAC 40 e FTSE MIB segnano percentuali tra il +2,5% e +2,6, dal 19 al 26 rispettivamente +3,5%, +4,5%, +4,4% e +4,7%).