Voglio le mani vuote, voglio le mani porose, voglio le mani
di sabbia.
Voglio respirare il mio respiro, vomitare, svuotare la
pancia la testa le gambe i piedi, rivoltarmi, capovolgermi, cadere.
Voglio perdere la
linearità. Diventare forme, deforme,
diventare uno solo, mescolarmi , sdoppiarmi, moltiplicarmi, essere un
miscuglio, confondermi, rotolare.
Essere come il pongo, scomposto, disordinato, duro al
tatto, tondo, verde bottiglia, bordeaux, nero finale. Una pagnotta inerme, lavorata, abbandonata a crescere da sola al caldo. Ma lasciatemi.
Ma non sono una biglia, unita, liscia, sonora, sono una ballerina
spezzata, un ramo barcollante.
Il vento mi sposta, provo a non perdere le mie estremità, di
nuovo mi espando, non mi reggo, mi divido, precipito. Il fango mi avvolge,
nuoto, non vedo.
Non voglio capire, storditemi!
Voglio ondeggiare, svenire, riposare sulla scogliera, chiudere gli occhi, aprire le
braccia, inspirare l’odore della salsedine. Acre.
Ora ho le mani vuote, il corpo leggero, il corpo un involucro: la carta velina, la carta vola
al vento. Danza.
Vado lontano con lo zefiro nei capelli, fra i vestiti, nei
polmoni. Non ci vedo ma mica ho bisogno
degli occhi.
Voglio essere terreno, sgretolarmi, dissolvermi, spargermi,
disperdermi, schiantarmi, frammentare le paure,
annientarle, leggere una pagina del mio libro preferito, poi scomparire, credere, pregare, restare in silenzio, inginocchiarmi,
ascoltare il respiro e respirare il silenzio, raccogliermi di nuovo, tenere le forze, diventare sasso, abbracciarmi, abbracciarti.
Ma non posso. Non posso se no mi sento meglio. E sono colpevole anch’io.
Mi vergogno della guerra.