DI DAMIANO MAGGIO, SOCIOLOGO
C’è del disagio in città. L’orizzonte è disegnato dai continui e ripetuti episodi di imbarbarimento e dalla conseguente solitudine sofferta da alcuni cittadini nei quali prevale un sentimento di “non attesa”, orfano della speranza che qualcosa cambi realmente. Un deficit di futuro che si traduce in uno stato di costante incertezza. Un sentimento che parla la lingua dell’antipolitica, ma che, per le domande che esprime, ha bisogno di risposte politiche più di quanto possa apparire a prima vista. Basta camminare per le strade per rendersi conto di cos’è la solitudine e cosa sono le diseguaglianze. Dal dopoguerra a oggi la geografia urbana della città è profondamente cambiata ma la sensazione è che i problemi si siano solo spostati, magari cambiando nome e forme. Anche quando tutto sembra ordinato e “a posto”. È molto facile incontrare storie di solitudine, legami rarefatti e provvisori, amicizie dimenticabili e persone sole che vanno avanti nelle loro singole unità abitative. Una moltitudine sola con la sensazione di sentirsi “insieme ad altri” senza esserlo realmente. Siamo passati dalla periferia geografica (contesto sociale frammentato e fragile, dove le diverse forme d’impoverimento moltiplicano le forme di disagio, dove è più facile “adattarsi” a vivere piuttosto che cercare improbabili vie di fuga ), alla periferia sei sentimenti (non conta la collocazione urbana ma ci si sente comunque “ai margini” delle opportunità, aspirazioni infrante, relazioni disgregate). È questo, un disagio prodotto del dilagare di varie forme di povertà: da quella economica e lavorativa, a quella culturale a quella dei giovani che non lavorano e non sono impegnati nello studio o in attività formative. Giovani che vivono in un crescente stato di precarietà, ospiti di un mondo che non offre certezze, se non condizioni di vita peggiori dei loro genitori, dai quali continuano a dipendere. Inciampano fra detriti di sogni infranti troppo precocemente, rassegnati a un deficit di speranza che li porta – per usare le parole di Sartre – a scegliere tra non essere nulla o fingere quello che si è. Perché fingono, fidatevi, pur di non soccombere. Infine, c’è la povertà politica, perché laddove il disagio è più forte, la politica è quasi assente nei pensieri e nelle parole dei suoi cittadini, distanti più che disinteressati al dibattito pubblico. Cosa fare allora? Occorre far tornare la politica locale alla responsabilità delle scelte. In un momento in cui il sistema delle appartenenze stabili e radicate sembra non avere più molto da dire, ciò che si chiede alla politica è attenzione e sensibilità rispetto alla vita reale, un maggiore coinvolgi¬mento nella progettazione e nella gestione della “cosa pubblica”. La politica cittadina ha un grande obiettivo da porsi: deve fare innanzitutto i conti con sé stessa, ripensando gli oggetti della sua azione, perché in tutte le sue forme, ideali o empiriche, conserva sempre una confluenza con le scelte che compie, con la capacità di creare idee e di produrre azioni. Se lo scopo dell’antipolitica è mettere in luce i difetti del sistema, denunciarli e tentare di correggerli, i fatti dimostrano che la “cattiva politica” si alimenta proprio dell’antipo¬litica, mettendo radici tra i detriti di una società capovolta che ha perso i suoi riferimenti economici, sociali e politici. Eppure ci sono tante buone idee che hanno solo bisogno di un’ope¬ratività pratica capace di renderle reali e concrete. Per farlo, la politica deve ritornare a pensare dal basso perché le “grandi sfide” possono trovare risposte recuperando una dimensione partecipativa che in realtà non si è mai indebolita, ma ha soltanto cam¬biato forma e modalità di espressione.