Un campione, che sia stato sul prato leale e carismatico, non può che restare nel cuore dei suoi sostenitori con iconica forza. È il caso (lucente) di Esteban “Cuchu” Cambiasso, mediano factotum dell’Internazionale del Triplete e di tanti altri trofei. Nei giorni scorsi, è stato in visita all’Inter club bitontino, presieduto da Gaetano Verriello. Ed è stato un abbraccio caloroso e oceanico con la folla nerazzurra, innamorata e un poco nostalgica, nell’Auditorium De Gennaro della Fondazione Santi Medici. Fra palloni e maglie da autografare, palloncini dipinti di cielo e notte, striscioni inneggianti al celebre ospite, il fuoriclasse argentino si è raccontato. A cominciare dalla gioia del momento: «Già quando sei in attività, è bello sentire il supporto dei tifosi. Quando, poi, smetti e continui a ricevere attestati di stima ovunque tu vada, allora ti senti davvero felice, vuol dire che hai fatto qualcosa di buono per i tuoi colori. Anche per questo motivo non ho un ricordo in particolare, ma tutto quello che ho fatto in nerazzurro è memorabile». A seguire, il paradigma nel mondo pedatorio: «Per me, l’esempio per eccellenza resta Raul, che rappresentava un’intera squadra. Era uno di quei giocatori che non pensano solo a sé stessi. Ricordo che non sapeva calciare di destro, ma sul campo era una macchina e puntava sempre a migliorarsi. Io mi sono sempre ispirato a lui, perché ogni scelta parte dalla testa prima che dai piedi». La lezione appresa alla perfezione: «Così, anch’io ho sempre pensato al mio miglioramento. Quando venni all’Inter mi dicevano di far attenzione perché andavo “in una società in cui non si vince da tanto”. Per questo, i 15 trofei vinti in nerazzurro per me significano tanto». Lo stupore e l’orgoglio: «Il club mi aveva sistemato in piazza Firenze, allora, il primo giorno libero, con mia moglie, mio fratello grande, decidemmo di andare a vedere qualcosa di Milano e ci recammo a San Siro. Il vero monumento della città». E, soprattutto, l’amore: «Ormai, io sono un po’ italiano e molto interista di adozione, questa unione che sento esserci è forte. Eppoi, se noi giocatori riusciamo a fare quello che facciamo, è perché ci sentiamo a casa sempre». Infine, il Mito, che fu tale pure per Giovanni Arpino, nel suo suadente “Azzurro tenebra”: «Una volta arrivato qui, un uomo è stato importante per me più di tutti, Giacinto Facchetti: nelle parole, ma anche nei silenzi. Sapeva stare accanto ai giocatori che vivevano momenti di difficoltà. Siamo andati a visitarlo in ospedale, mi è capitato di fare una doppietta a Firenze e l’ho dedicata a lui. So quanto aveva lottato, sapevo quanto ci teneva al festeggiamento a Siena, il primo campionato che abbiamo potuto festeggiare sul campo. Uno scudetto che era molto suo, ci ha dato una forza decisiva anche con l’assenza. Il figlio Gianfelice mi consegnò la maglia n.3, con cui ebbi l’onore di festeggiare. Ma pure quando vinsi la Liga, gioii con la maglia sua donatami dall’altro figlio Luca». La chiusa ha il sapore dell’aforisma saggio: «Non bisogna mai dimenticare il passato». Oltre all’omaggio degli appassionati, a rendere onore al centrocampista albiceleste è stato il sindaco Francesco Paolo Ricci, che ha donato un libro sul culto dei Santi Medici che accomuna la nostra città alla terra sudamericana.