C’è modo e modo d’essere giornalisti.
Mestiere difficile e bellissimo, quello del cronista. Fatto essenzialmente di incontri. Parole che raccontano il mondo, certo, ma pure vite di uomini e donne che si incrociano, nel pieno rispetto della reciproca dignità. E, tra colleghi, la lealtà, soprattutto. Me lo ha insegnato tanti anni fa Antonio Cardone – nella redazione del giornale da lui diretto c’era anche un tale Piero Ricci… -, che su un foglio di carta mi scrisse un elenco di nomi insigni del nostro mondo e, dopo aver tracciato una linea verticale, dall’altro lato vergò il nome del massimo insegnante di etica giornalistica: “la strada“.
Ecco, scelte che si fanno nel tempo. Il giornalismo viene dai libri, ma si rinsalda con le suole delle scarpe che si consumano, con l’ascolto empatico dei tuoi interlocutori, massime se di quelle fasce sociali cosiddette fragili. Così, durante il cammino di nostra vita cronachistica capita di incrociarne d’ogni tipo: lo scrittore eccelso che ti è amico con semplicità, l’editorialista straordinario che addirittura ti si rivolge con affetto, ma pure il sodale col quale hai condiviso la polvere e sei felice quando lo vedi assaporare qualche meritato coriandolo di luce.
Eppoi, ci sono gli dei, coloro che si credono inarrivabili e in uno inattaccabili, motivo per cui possono far qualsiasi cosa senza rischiare nulla. Mai. Calpestando anche con spietatezza mascherata da falsa misericordia giornalisti che ritengono minus habentes, per il sol fatto che non sono approdati a chissà quale prestigiosa testata. Ma che senso ha tutto questo? Davvero, siamo ancora dinanzi ad una simile autoreferenzialità castale con tanto di malcelata discriminazione?
Per chi non abbia ancora compreso qual è l’argumentum dell’articolo, spiego. L’intervista in due puntate al presunto boss Domenico Conte e i commenti che ne sono seguiti. “Colpaccio“, “Ottimo“, “Bravissimi“, alcuni colleghi hanno provveduto a comunicarci con estrema sincerità. Altri hanno ritenuto opportuno sminuire il nostro operato e addirittura adombrare chissà cosa dietro il nostro pezzo.
Eh no, questo proprio non lo accettiamo. Non lo accetto. Siamo sempre, e sottolineo sempre, stati accanto alle forze dell’ordine che nel nostro territorio hanno un lavoro tutt’altro che semplice da compiere. E non sto qui ad enumerare quante minacce abbiamo subito e quale posizione, netta e inequivocabile, abbiamo sempre preso contro la mafia, anche quando tanti nostri concittadini fingevano di non vedere. Né tanto meno qui rammento i titoli di quali libri hanno nutrito questa mia visione del mondo incrollabilmente antimafiosa (e non mi riferisco solo alla malavita propriamente detta…), mi limito solo a un ricordo.
Tanti anni fa (25?), il mio direttore e predecessore alla tolda del Da Bitonto, Franco Amendolagine, mi inviò a Villa Romamazzi per seguire un convegno contro la mafia. Farlo allora era davvero coraggioso. Seguii le relazioni con interesse, una più di tutti. Quella di un valente giornalista Rai: Costantino Foschini. Fu una vera lezione di vita e di mestiere, quella. Punto.