DI VINCENZO ABBATANTUONO E ANGELO PALMIERI
Ogni giorno balzano agli onori della cronaca notizie “rutilanti” che riguardano atti vandalici, violenti, di sopraffazione psicologica e sociale. Comportamenti commessi da baby gang, un fenomeno sociale in forte aumento che ha determinato un grande clamore pubblico, mediatico e politico. Innanzitutto bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa siano le baby-gang e se tutto quello che i media attribuiscono alle baby-gang non sia solo puro e semplice teppismo.
Dick Hedbige, noto e profondo conoscitore di sottoculture giovanili, scriveva già nel 1991 davanti alle insorgenze di fenomeni aggressivi come i gruppi naziskin sulle rovine del Muro, che questo tipo di risposta violenta “è sia una dichiarazione di indipendenza, di alterità, di intenzione estranea che un rifiuto dell’anonimato, della condizione subordinata”.
Fino a quando attribuiremo a gruppi indistinti e variopinti di non meglio precisate “baby-gang” tutta la carica virale della violenza endemica contenuta in questo modello di società, non riusciremo verosimilmente a ritrovare il bandolo gnoseologico della matassa. Diverse altre letture e metanalisi sociologiche e antropologiche cercano di comprendere l’eziologia di certi comportamenti che la letteratura classica tende a classificare in quattro tipologie: le azioni delle cosiddette baby gang sono molto varie e hanno significati diversi: la prima è centrata sul danaro, la seconda sulla sessualità, sull’imposizione del proprio proprio istinto-desiderio erotico ed estorcere il piacere, la terza sulla sopraffazione psicologica e sociale, comunemente definita bullismo, la quarta sulla distruzione delle cose e che si definisce vandalismo.
L’appartenenza ad una gang, intesa come gruppo informale di coetanei con codici e rituali comuni, sulla falsariga delle sottoculture giovanili del passato, possiamo definirla sociologicamente espressione di risposta a un insieme di bisogni relazionali, sociali e psicologici che si manifestano normalmente nella vita degli adolescenti. Vi è certamente il bisogno di crearsi un’identità forte sperimentando una sorta di “attaccamento secondario”, condizione per fare esperienza e condivisione di interessi comuni ed esperienze di vita. Ma non è da trascurare il senso di protezione e la sicurezza che il giovane adolescente non trova nelle istituzioni, nella scuola e nella famiglia, sottosistemi quest’ultimi caratterizzati da una forte crisi simbolica. Nella gang di appartenenza il giovane nondimeno esperisce la componente ludica che deborda in esperienze adrenaliniche.
A tal proposito le statistiche ci parlano di frequenti stupri di gruppo, rapine con l’uso di pericolose armi, i pestaggi di strada, i numerosi atti vandalici. Assistiamo sempre di più alla via delle baby gang verso il palcoscenico, in cui si è osservati dagli altri in una logica di difesa della propria reputazione e di difesa del proprio territorio in riposta alle possibili minacce delle istituzioni come la scuola, la polizia, i servizi sociali con cui i ragazzi hanno un rapporto di totale conflitto e diffidenza. Le gang sono territoriali, nascono in quartieri dissociati dal centro, sono espressione di aggregazione altra rispetto ai modelli proposti dall’alto (scuole e associazionismo residuale nelle periferie), agiscono una lotta di classe volgarizzata e brutalizzata verso soggetti considerati privilegiati.
E’ una lotta di classe regressiva, velleitaria e nichilista che si nutre persino di una mitopoietica musicale e un gergo esclusivo da “maranza”, il ragazzino generalmente di origini arabe vestito con abiti firmati, spavaldo e impavido, sfuggente e imprevedibile. Gli agiti violenti verso la classe medio-alta sono vissuti come atti liberatori che equivalgono a sfogare rabbia, frustrazione e senso di inferiorità. Da sottolineare inoltre, la forte correlazione tra social network e l’espansione delle baby gang; lo sviluppo dei social ha indotto molti giovani a pubblicare foto e video di azioni illegali innescando una sorta di processo di condizionamento e imitazione. Un rischio emulazione da non generalizzare ma semplicemente per molti ragazzi queste realtà virtuali possono essere fonte di attrazione e come direbbe Bandura, causare forme di disimpegno morale.
Interessante l’analisi del sociologo Franco Prina nel suo libro Gang Giovanili: perché nascono, chi ne fa parte, come intervenire, ci aiuta a individuare due tipi diversi di emulazione: l’imitazione esteriore e la riproduzione effettiva di atteggiamenti. Nel primo caso i ragazzi imitano semplicemente il look e le abitudini culturali delle bande più note americane, come avviene con i Latin King; nel secondo caso, si assiste ad un reale processo di interiorizzazione di atteggiamenti aggressivi linguistici. Sperimentiamo tuttavia una totale difficoltà da parte delle forze dell’ordine e delle istituzioni nel contrasto alle baby gang per mancanza di strumenti di lettura e di interpretazione dei comportamenti.
Se non indaghiamo le complesse dinamiche sociali e di gruppo che appartengono alle bande di strada ogni intervento di comprensione e di repressione risulta vacuo. Possiamo provare ad immaginare alcune linee strategiche e modelli di azione: il primo coinvolge il personale esperto attivo nei servizi specializzati sul disagio minorile, depauperato anch’esso dalle finanze pubbliche; il secondo cerca il sostegno delle comunità locali. E in questo secondo caso diventa importante il lavoro di strada al fine di stimolare interessi culturali tali da far desistere i ragazzi dal commettere reati gravi. Inoltre attraverso un piano preventivo occorrerebbe lavorare per scongiurare un sovraffollamento delle carceri minorili.
Infatti il tasso di recidiva è nettamente più alto di quello che hanno beneficiato di misure alternative alla carcerazione con conseguenze di stigmatizzazione sociale che tende a rafforzare l’identità criminale. Abbiamo urgenza di riscrivere un piano di interventi ad ampio respiro per le giovani generazioni. Ciò richiede di destreggiarsi meglio sulle onde del caos originato da una stasi istituzionale e da un vuoto programmatico, a tutti i livelli di responsabilità e competenza, in riferimento alle politiche di contrasto al disagio giovanile. Di contro, non c’è nessuna esperienza di luoghi consistenti e forme di socialità rassicuranti, ovverosia capaci di ascolto e mediazione in grado di superare una concezione privatistica del disagio a vantaggio della socializzazione di angosce e fragilità così da poter accogliere a braccia aperte ombre e domande di senso. Innanzitutto, si rende non più rinviabile l’attuazione di una programmazione delle risorse economiche e professionali con una chiara visione condivisa da tutti i portatori di interesse al fine di orientare al meglio la destinazione degli interventi (equità) e di favorire l’intento cooperativo/collaborativo tra i diversi stakeholders.
A tale scopo, è indispensabile la messa in campo di un coordinamento tra servizi che si occupano di prevenzione e assistenza, nonché tra operatori, utenti, familiari, associazioni, Enti del Terzo Settore. Tutti i soggetti chiamati in causa si devono sentire impegnati a ridurre l’impatto di fattori di rischio e ad aumentare l’incidenza di fattori protettivi. Il ruolo della scuola, derubricato a semplice agenzia formativa diurna, andrebbe ridiscusso nell’ottica della costruzione, specie nelle periferie degradate, di autorevoli presidi territoriali aperti extra-didattici in grado di fornire asilo alle esigenze ludiche e culturali dei giovanissimi, forse il solo espediente in grado di prosciugare il brodo di coltura in cui cresce fiorente la gramigna della violenza. Da ultimo, vanno ridefinite le politiche educative; sappiamo come la scuola favorisca le relazioni tra coetanei e dunque costituisca un efficace ammortizzatore dei conflitti adolescenziali.
Ormai va raccolta la sfida di paradigmi culturali, organizzativi ed educativi sinora indebitamente tenuti a distanza, accordando dignità sottoculturale a fenomeni verso i quali il solo stigma moralistico non serve minimamente a esorcizzarli.