DI ANGELO PALMIERI, SOCIOLOGO
Riccardo ha 19 anni e una rabbia che gli vibra nelle dita. È arrivato in comunità dopo mesi di silenzi dolorosi, implosi, vissuti nel chiuso della sua stanza, tra farmaci che anestetizzavano i giorni e le notti senza tregua. Aveva gli occhi spenti, opachi come vetri offuscati, lo sguardo clinato e l’umore flesso come un ramo arcuato dal peso. Le braccia — a volte visibili sotto le maniche rimboccate — raccontavano, con cicatrici rosee, sottili e parallele: segni inequivocabili di un dolore che aveva cercato sfogo nella pelle quando nessuno sembrava disposto ad ascoltarlo davvero.
Riccardo mi ha fatto pensare a quella solitudine radicale di cui parlava Sartre nell’opera “Il muro” — una condizione in cui non c’è consolazione, nessuna, se non quella di una presenza che non fugge. All’inizio osservava tutto con diffidenza, come chi ha smesso di attendere qualcosa dagli altri. Una sfiducia abbandonica, come se fosse stato reciso da quell’attaccamento primario che ancora lega l’esistenza a un senso possibile. Quando l’ho incontrato, non ha parlato subito. Ha preso una sedia e si è seduto lontano, ma non troppo.
Era il suo modo per dire: «Sto qui, ma non avvicinarti troppo». Ci sono voluti giorni, segnati da un’umoralità incerta e altalenante, prima che affiorassero parole. Tronche, spezzate, guardinghe — come se anche il dire fosse una prova, un rischio, un gesto di fiducia difficile da concedere. È successo mentre stavamo zappando l’orto insieme, sotto un sole di febbraio che ingannava il freddo.
«Tanto se poi te ne vai anche tu, che senso ha?» ha detto all’improvviso. Ho fermato le mani e il cuore. Non ho risposto. Non avevo nessuna risposta pronta, e forse non serviva. Ho continuato a zappare, con gesti più lenti, quasi rituali. Sono rimasto. Non ho cercato scorciatoie né espressioni che addolcissero. Ho scelto di sostare — silenziosamente, faticosamente — con la speranza di varcare, anche solo di un passo, il tumulto che gli abitava l’anima.
Quella pausa, quell’apparente non-fare, è stata l’inizio di una fiducia. Riccardo, come tanti ragazzi oggi, non cerca risposte immediate, ma presenze che reggano l’urto del suo dolore. In un tempo macchiato dalla bulimia di stimoli, ma povero di legami autentici ed epidermici, ciò che davvero manca è una relazione devota che — che sappia rimanere anche quando tutto sembra disfarsi. Hanno bisogno di adulti fermi, attenti, capaci di abitare la fragilità senza ritirarsi.
I giovani non desiderano relazioni che li sovrastino, ma legami che si radichino nel loro sé, che sappiano orientare senza imporre, accompagnare senza cedere alla sterile retorica educativa. E per questo, noi adulti, dobbiamo avere il coraggio di restare. Di fermarci accanto a chi è nel margine, senza la fretta di guarire, ma con la pazienza di chi sa che ogni tempo donato si trasforma.
In fiducia. In affidamento. In una rinascita possibile — lontana da una logica che misura tutto in base a ciò che rende, e non a ciò che salva, trasforma. Solo chi sa attraversare la notte con l’altro, senza la pretesa di accendere subito una luce, potrà custodirne l’alba con verità. Perché, in fondo, ciò che davvero manca è una relazione devota.