“Gens butuntina tota mala (o bestia) et asinina”, avrebbe detto Federico II di Svevia per disprezzare una città che lo aveva abbandonato mentre era in Palestina a gestire la sesta crociata (1228/9), quella impostagli dal papa Gregorio IX, nella speranza che l’imperatore morisse in terra straniera ad opera dei mussulmani. Ed invece lo Svevo, risolta la crociata grazie ad un accordo diplomatico con il sultano al-Malik al-Kamil (1179 – 1234), lo stesso che aveva accolto ed ascoltato san Francesco solo qualche anno prima (1220), era tornato in Puglia, sbarcato a Brindisi e rientrato nel Meridione d’Italia. Trovando, però, una situazione politica molto ostile a causa della ribellione di numerose città del suo regno e della Puglia, in primis. Tra queste anche Bitonto, che, a differenza di Andria, si dice gli avesse chiuso le porte in faccia: cosa che, invece, avvenne qualche decennio dopo quando, nell’aprile del 1253, re Manfredi ne ordinò il saccheggio. E si crede anche (ma non è vero!) che fosse stata distrutta con l’appendice di un giudizio sferzante e rabbioso sulla cattiveria (proprio lui, poi!) dei suoi abitanti e sulla loro presunta ‘ciucciaggine’, cioè stupidità. Gens mala et asinina, appunto. A questo proposito, sia permesso di avanzare qualche legittimo dubbio in merito sia alla paternità sia al significato della frase derisoria attribuita a Frederico (è questa la grafia corretta usata all’epoca) da autori non proprio attendibili. In primis, però, precisiamo che il motto “Gens butuntina tota mala et asinina” è un verso leonino, molto diffuso nel Medioevo e caratterizzato dalla rima al mezzo: butuntina, infatti, rima con asinina. Di versi del genere, inquadrati nella categoria dei cosiddetti ‘blasoni popolari’, ce ne sono pervenuti tanti, soprattutto dall’area pugliese, relativi ad Andria, Molfetta, Lucera, Troia ecc. E testimoniano più che altro un certo campanilismo revanscista molto diffuso nel Mezzogiorno d’Italia da ascrivere alle solite contese paesane, caratterizzate anche da aneddoti simpatici dal sapore boccaccesco. Un campanilismo cui si richiama un altro verso, questa volta in vernacolo ma anch’esso leonino, che recita: ‘cce Vetonde aveve u purtu, Bbare jere murtu’. E ribadisce una rivalità soprattutto commerciale fra le due città della vecchia Peucezia ben sapendo che Bitonto da sempre avesse un porto, Santo Spirito, da cui ricavava parecchio denaro e prestigio. Comunque sia, che un motto così sferzante sia stato pronunciato da un imperatore colto e convinto assertore di una concezione universale del suo potere ci sia permesso di non crederlo. Ma di supporre che l’attribuzione a Frederico sia solo una patente di autorevolezza a garantire la veridicità del motto stesso nobilitato dall’ uso di un latino maccheronico. Inoltre, c’è da notare che il verso è ripetuto, cambiando solo il nome della città, per bollare, questa volta, perfino quell’Andria, che, si dice, lo stesso imperatore avesse gratificato dell’appellativo ‘Fidelis’, riconoscendone ed apprezzandone sentitamente, al tempo stesso, la fedeltà:‘gens andrisina tota pessima et asinina’. Così stando le cose, interessante risulta l’uso di un aggettivo come ‘asinina’, che nel riferimento al noto e paziente quadrupede vuol essere un’offesa alla stupidità degli abitanti. Poco spiegabile, però, con un presunto sdegno dell’imperatore svevo, che non avrebbe avuto motivo alcuno ad apostrofare un’intera comunità (tota gens) con un appellativo (asinina, appunto) più adatto a bollare una qualche banale situazione paesana che una presunta ribellione politica. Della quale ultima non ci sembra ci sia traccia alcuna nemmeno in documenti anonimi come l’ Itinerarium Frederici del 1230 in cui si citano le città ribelli riconquistate manu militari dal sovrano svevo. Fra le quali Bitonto, appunto, non compare. Mentre risulta, solo poco più di trent’ anni dopo, una città sottomessa al successore di Frederico, suo figlio Manfredi, come attesta il primo documento del Libro Rosso di Bitonto redatto nel 1265. Non si dimentichi, inoltre, che da alcuni autori il verso suddetto è (sorprendentemente) abbinato a quello che, già da epoca angioina, è presentato come il motto della città:‘Ad pacem promptum designat oliva Butuntum’. Anch’esso un verso leonino (promptum … Butuntum) ma di tutt’altro sapore perché esprime un nobile ideale della città, l’essere propensa a perseguire la pace. A meno che l’affermazione non voglia celare una battuta velenosa, che col tempo ha perso il suo sarcasmo, allusiva ad una presunta incapacità della comunità locale di affrontare una guerra: insomma, da un nobile ideale di pace ad un (per l’epoca) vile atteggiamento pacifista. Il che spiegherebbe anche l’uso di asinina, essendo il somaro negazione vivente di una bellicosità superbamente simboleggiata dal suo eterno rivale, il cavallo. In questa prospettiva i due versi non sarebbero in contrasto ma legati da una sottile ironia: gli abitanti di Bitonto sono così cattivi e spregevoli da essere ben disposti alla pace nel nome della loro attività agricola. Anche questa ipotesi però non legittima la presunta paternità fredericiana del distico leonino. Resta, comunque, che anche in assenza, storicamente provata, di rapporti fra Frederico e Bitonto, quest’ultima ha mantenuto un atteggiamento ostile nei confronti dell’imperatore svevo riconoscendogli nella toponomastica cittadina un oscuro vicolo del centro storico nei pressi di sant’Andrea, quasi a punirlo di una decisione violenta e di un’affermazione sarcastica, che risultano (lo ripetiamo) prive di alcun fondamento storico. Sarebbe ora, invece, che la Città, confermando la sua plurisecolare nobiltà d’animo, si decida ad intitolargli un luogo significativo del suo centro urbano. Ed a sconfessare una “mala asinina” natura. Per non mandare in bestia chi riconosce la grandezza di Frederico II di Svevia.