DI ANGELA ANIELLO
Se la parola tarda ad arrivare, la si aspetta come un’amante, la più desiderata, la più amata, perché è tramite la sua corrispondenza con la vita che il poeta scrive versi e sente di appartenere a qualcosa di più grande.
Allora la natura diviene elemento di stupore e meraviglia e conduce verso l’alto, “salire al monte con voi alla cima degli erranti” sì da trasfigurare il cuore.
Mi piace partire di qua per introdurre la silloge “Esercizi dell’abbandono” di Michele Scaglione, appassionato docente di Filosofia e fervido poeta dall’anima delicatamente errante, pubblicata nel 2020 con il Gruppo Albatros nella collana Nuove Voci Le Piume.
La poesia di Scaglione parte da una necessità di appartenenza, da un tentativo di sublimare tempo e spazio in una dimensione quasi trascendente.
Cos’è che l’anima squaderna? E com’è che ci si esercita all’abbandono?
L’immagine in copertina del cuore svuotato della linfa vitale, che continua a battere seguendo un suo ritmo, è decisamente palpitante e ci conduce a un concetto di abbandono senza controllo razionale e affettivo in una continua recherche di sé per trovare la propria identità.
Vivere la vita significa imparare a scegliere anche quando sembra difficile o, addirittura, impossibile.
Per riuscirci bisogna superare il costrutto, sganciarsi dai vincoli, legarsi a un’idea dandole carne e spessore.
Qual è l’intesa profonda sì da sfuggire all’occhio finto e al muto sorriso?
Qual è il confine tra le ombre e la luce?
Il poeta parrebbe accontentarsi di un abbozzo per placare la sua insoddisfazione.
La parola inassuvita, tratta dalla poesia “Ognuno quasi ognuno” di Giovanni Giudici, colpisce per la sua musicalità sì da oltrepassare un limite: è proprio la poesia la preda vibrante da coltivare in un sottobosco di emozioni.
L’arte tutta commuove e tocca l’anima risvegliandola. Il poeta non può celare la sua commozione dinanzi al dipinto di Bouguereau in cui, superato il formalismo del pittore, quel che resta impressa è la relazione tra la sorella maggiore e il fratellino: le mani che stringono, gli occhi che guardano nella stessa direzione,
l’intesa come una preghiera col suo dio schiaffeggia la solitudine dell’osservatore e i suoi pensieri trattenuti.
Ma è all’alba che l’attesa si dilata insieme al baratro: cosa immolare al tramonto? Cosa esporre al ghigno del mondo?
Mentre la pioggia batte sugli alberi e il cielo si squarcia, il dolore tesse le sue cicatrici nel cuore infetto. Andare, tornare, tentare di salire alle stelle e mondare la memoria del tempo. Illusione!
Le cicatrici non si possono cancellare, restano lì per non dimenticare, perché s’impara ad amare il dolore se non lo si vede come un nemico. Nel battito lieve del mondo, nel mantello sdrucito della foglia, nella ricerca del frutto che non soffre si consuma il destino di un uomo.
Il rantolo della vita che spira pare salire dal ventre della terra con un rombo inconfondibile ma qualcosa romperà le barricate e il respiro ansante, qualcosa divellerà le vesti impalpabili dell’irreparabile.
Qualsiasi fine tra il non dire e il biancoluna della notte in un’ipotesi ancestrale di sillabe ancipiti a nolo ci ricorda che sul periplo della terra una lucina, poi, illumina anche i gemiti a fondovalle. L’inferno non è sempre tale.
Una chiave di volta c’è e il poeta la prende in prestito dal grande Giacomo Leopardi. Bisogna riscoprire la sua social catena per stare al mondo connessi per fronteggiare il terribile, per sopravvivere contro un nemico invisibile.
Una musa zingaresca s’affaccia nel cuore del poeta in un concerto muto di strumenti. Domina l’impeto dell’evanescenza e s’intravede una danza a luci basse. L’invito al ballo suggerisce al poeta di lasciarsi andare seguendo un profumo che impregna e orienta.
Qual è il richiamo della poesia?
La profondità è concessa solo a chi è disposto a perdersi, a seguire rotte ignote, ad accovacciarsi per scoprire una propria solarità, unica fra tante, cavalcando le onde.
È il midollo dell’essere che insidia e adombra l’azzurro in un arcano presagio.
Il poeta sa che fatica a mantenere le promesse e si rivolge a un tu che possa fermare il suo giro immolando il cuore nell’esigenza di una bussola che lo conduca verso l’aurora.
Sotto le palpebre resta il ricordo come una ruga incancellabile, come una sorta di appuntamento al risveglio.
Ciò che si porta con sé traccia sempre un sentiero per riaffiorare oltre i misteri in un universo in espansione.
Qualcuno nasce a salvarci suggerisce il poeta. Allora saltano il fossato anche i piedi che hanno memoria di croci.
Per risalire la corrente bisogna guardare in lontananza, osare in un silenzio dicroico, morire e poi risorgere.
Come un nunzio del cielo
guardare al mattino
con occhi colmi di oblio.