Si ripropone qui, rimaneggiato appena, l’argomento Coronavirus e resilienza, già trattato nel mensile nostro, uscito qualche giorno fa. Ci si è chiesti quanta resilienza sia prono adattamento alle contingenze e quanta si traduca in miglioramento dello status quo. Si guarda alla media, per cavarne due righe di riflessione. L’italiano medio, all’acme della virulenza del covid-19, s’è mostrato “resiliente”: scuole chiuse, chiese chiuse, locali pubblici off-limits, Smart Working, per non dire dei già digeriti Ztl, Bike Sharing, bio-acquisti, differenziata. Benthamiano ossequio alla greatest happiness? O ennesima prova d’allineamento e copertura, propria dell’italica genìa? Fatto il compitino a casa, è il momento, dopo 100 giorni, di ragionare con calma. Che è quasi impossibile, con 34 mila morti e 31 mila casi attuali di positività conclamata. Gli scienziati presenziano in Tv, i politici si strattonano in Transatlantico, c’è chi cerca il capro espiatorio e chi brandisce il lanciafiamme, e c’è persino chi nega tutto, autolesionisticamente, come don Ferrante nei Promessi Sposi. L’emergenza odierna è una medaglia con le facce roventi della sanità e dell’economia: utile sarebbe, allora, cercare le possibili interazioni tra i due àmbiti. Non si può, ad esempio, sottacere che già prima del Covid-19 nel mondo si registravano 219 morti al giorno per polveri sottili, con chiusura dei centri-città, una volta superati certi limiti. Ma al di là del varo dei c.d. Fondi Etici, nessun’altra bàlia, pubblica o privata, si è immaginata per allevare il neonato Green New Deal. Se i rischi, ambientale e sanitario, non saranno “scontati” nei futuri prezzi dei beni economici e degli asset finanziari, ogni nuova promozione di economia sostenibile sarà poco più che un pio desiderio. La questione non riguarda dunque la coscienza collettiva della crescita sostenibile, ma la capacità effettiva delle comunità di saper ridurre il gap tra tale nuova consapevolezza e la fattibilità delle soluzioni suggerite. In tal senso, la politica ha mostrato la corda della sua inadeguatezza e questo ha nutrito la disillusione della gente, il suo organizzarsi in corpi sociali intermedi, la resilienza, tutti sintomi di una sostanziale sfiducia nelle garanzie future offerte dal sistema. Infine, domanda delle cento pistole: la resilienza-sopravvivenza non sarà forse la prova dell’incapacità genetica degli italiani di produrre coraggiose riforme sistemiche? Queste ultime, si sa, sono processi non immediati, e spurî: hanno in sé il germe della rivoluzione ma anche la necessità della mediazione. E serve denaro. Oggi, per respirare. E per mitigare il fosco scenario prospettato dall’emergenza coronavirus: produzione interna: -10%; debito/pil: 160%; per non dire dell’impennata del tasso di disoccupazione, naturale viatico dell’impoverimento di un Paese. Le sole risposte sinora fornite, tuttavia, vanno dalla caramellosa retorica del patriottardo, col tricolore dappertutto, sui balconi, sulle mascherine, persino nei nomi dei provvedimenti, il Cura-Italia, il Btp-Italia, all’eccessivo sottilizzare del sovranista sugli aiuti dall’UE (da chi altri, sennò?), su su fino ai fuochi fatui della decrescita (in)felice. Il piano Recovery Fund presentato dalla Commissione Europea al Consiglio, “libera” 1350 miliardi di euro (ai 750 mld euro iniziali se ne sono aggiunti, notizia della scorsa settimana, altri 600 mld. del programma anti-pandemico PEPP, di acquisto di titoli governativi da parte della Bce in Quantitative Easing), di cui 172 andranno all’Italia, metà dei quali a fondo perduto. Servono, inoltre, capitali europei per finanziare la ricerca sul vaccino anti-covid, la cui scoperta darà al Paese first comer un vantaggio competitivo cruciale: sarà quello che, riavviando i motori per primo, per primo cancellerà le stime infernali di Pil e debito. Senza iniziative sistemiche, e senza capitali, la resilienza volterà in lavoro nero e richiesta di assistenzialismo, cioè l’antipode di una riforma economico-civile. E in quel caso, il covid-19 avrebbe vinto comunque, in quel suo smascherare il vero vizio degli italiani: si è davvero disposti ad immaginare un’altra sanità che non sia solo quella delle eccellenze? Un’altra scuola che non sia solo quella di stato? Un’altra impresa capace di andare oltre l’elemosina dei sussidi? Un’altra classe di lavoratori, di contribuenti e di elettori, un’altra Italia, con un respiro europeo in più e una coccarda tricolore in meno? Si resta, così, come sospesi in un torbido limbo di aspettative, e con poche certezze da cercare col lumicino, al buio della nostra storia unitaria. Agli italiani, refrattari ad ogni intransigenza, forse si chiede troppo: alla serietà della lotta politica, avvelenatasi nella ragion di stato, si è sostituita l’arte della transazione col potere, il do ut des cittadino-stato, imposte-sussidi: pago le tasse per stare al riparo dalle folate della concorrenza globale. Nessuna responsabilità individuale: tutto è affidato al demiurgo di turno. Si deve, allora, evocare lo spirito imperituro di quell’Elogio della ghigliottina in cui Piero Gobetti denunciava, un secolo fa, l’infantilità e la facilità degli entusiasmi italici verso i paterni condottieri: « Né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi… Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo e bisogna sperare che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. … chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro ». Il boia, appunto. Un virus. Perché si possa veder chiaro…