È di qualche giorno fa la notizia, pubblicata sul settimanale “L’Espresso”, di un importante passo avanti sulla vicenda della Divania e sul processo per il suo fallimento. Il Tribunale di Bari ha stabilito il sequestro conservativo di beni per un ammontare di 40 milioni di euro agli ex manager di Unicredit Alessandro Profumo e Federico Ghizzoni e ad altri dodici manager che guidavano banca Unicredit negli anni del boom degli strumenti derivati, ossia tra gli anni ’90 e il 2010. Beni che comprendono immobili, conti e stipendi (per la quota massima di un quinto, stabilita dalla legge).
Un sequestro che, come bene spiega il periodico, non è da intendere come un esproprio e non si basa su alcun giudizio di colpevolezza per gli indagati. È solamente un provvedimento atto ad evitare che i beni possano essere venduti o donati, in modo da garantire gli eventuali risarcimenti.
Non si tratta neanche di un sequestro a vantaggio della società. Intende, invece, tutelare l’imprenditore bitontino Francesco Saverio Parisi e il suo diritto ad ottenere un risarcimento per i danni subiti, in caso la sentenza di condanna del tribunale gli dia ragione. I beni bloccati, infatti, sarebbero destinati non alla Divania, ma personalmente a Parisi, titolare del 99,5% delle quote dell’azienda, per compensare il depauperamento del proprio patrimonio derivante dalla perdita di valore delle sue azioni dopo il dissesto aziendale collegato ai derivati.
La Divania, ricordiamo, un tempo era un’azienda leader della produzione di divani, che dava lavoro a 430 operai ed esportava in tutto il mondo. L’azienda era settima produttrice di divani in Italia e fatturava 70 milioni di euro l’anno. Nata come piccola ditta produttrice di pellame, nel quartiere Stanic di Bari, con due soli dipendenti, diventò un’impresa di respiro internazionale con sedi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Una storia finita nel 2011, di cui, oggi, rimangono solamente ruderi, come quello che, ancora oggi, si erge sulla strada per Modugno, lì dove c’era lo stabilimento bitontino. Ad interrompere quella realtà di successo dell’imprenditoria pugliese, secondo l’accusa, scelte errate che avrebbero condotto al fallimento la Divania. Scelte indotte proprio dai dirigenti di Unicredit, che avrebbero prima convinto, con l’inganno, Parisi a sottoscrivere alcuni derivati, e poi avrebbero sottratto 183 milioni di euro dai conti dell’azienda, inducendola al fallimento.
«Il provvedimento è l’ulteriore conferma di quanto sosteniamo da tempo: il fallimento dell’azienda ‘Divania’ è stato provocato da operazioni e investimenti sbagliati, suggeriti in malafede da funzionari e manager bancari» sostiene, in un comunicato stampa, Antonio Delle Noci, segretario generale della Filca-Cisl Puglia, che da anni, ormai, sostiene i lavoratori che, a causa di quel fallimento, persero il lavoro, pagando «con il licenziamento errori commessi da altri».
«Sono certo che l’azione giudiziaria in corso riuscirà a definire la verità e ad assicurare la giustizia. Noi continuiamo a restare a completa disposizione dei lavoratori, che non devono sentirsi soli. Per far sentire la nostra vicinanza siamo anche presenti a ogni udienza con striscioni e bandiere», aggiunge il sindacalista, sottolineando che «ci sono 430 lavoratori, e quindi 430 famiglie, che hanno sete di giustizia per i danni economici, le sofferenze, i disagi, le umiliazioni e le vere tragedie sociali patite in questi anni. Bisogna dar loro una risposta nel più breve tempo possibile».
La speranza, infatti, è in un esito finale che confermi, quanto prima, le tesi dell’azienda e dei suoi lavoratori, riconoscendo la condotta fraudolenta dei dirigenti dell’istituto bancario e stabilendo il recupero dei 183 milioni con cui potrebbero essere pagati tutti i creditori. Un esito che permetterebbe a Divania di riaprire e ripartire, riassumendo i dipendenti che ancora attendono la fine di un incubo.