Segniamoci questi nomi. Benedetto Zuccaro, anni 13. Lorenzo Pace, 14 primavere. Riccardo Cristaldi, 15enne. Giovanni La Greca, stessa età di Cristaldi.
Quattro ragazzi che nel 1976, in pienissima estate, abitano nel quartiere popolare di san Cristoforo, a Catania.
Purtroppo per loro, non sono giovani come tanti della loro età. Garzoncelli non tanto scherzosi, sicuramente, ma che fanno capire come per tanti anni ci hanno raccontato una bufala.
Quella che la mafia non uccide mai bambini, anzi li rispetta. Cosa Nostra, in realtà, ha sempre ucciso i bambini, perché quando è necessario l’omicidio non ha età. Lo fanno per vendetta o per ricatto, per eliminare un testimone pericoloso, uno che ha visto o sentito. Li bruciano, li sotterrano, li squagliano, tre anni, otto anni, dodici anni, la data di nascita è ininfluente quando c’è un capo che dà l’ordine o se bisogna salvare se stessi, o se qualcuno inizia a cantare.
Ce lo ricorda Giuseppe Di Matteo. Lo abbiamo visto, qualche settimana fa, con l’11enne Giuseppe Letizia. E sì, ci sono anche loro Benedetto, Lorenzo, Riccardo e Giovanni.
Quattro picciriddi, come chiamano i ragazzi nell’isola più grande del Mediterraneo. E, non è un caso, si parla della strage dei picciriddi.
Estate 1976, allora. Non è facile vivere nella Catania degli anni ’70, specie nel popoloso quartiere di San Cristoforo, tanto è vero che i quattro ragazzetti si cimentavano nei furtarelli. Un giorno, però, fanno il passo più lungo della gamba, ma loro non lo sanno. Rapinano la mamma di Benedetto ‘Nitto’ Santapaola, boss in costante ascesa nelle gerarchie della mafia della Sicilia orientale, vero e proprio capo della mafia catanese durante gli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Uno di coloro, per intenderci, vivo protagonista della strage di via D’Amelio e dell’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Di lì a poco i quattro spariscono, e per anni nessuno sa niente di loro.
Lo racconta, anni dopo, Nino Calderone, sodale di Santapaola, quando diventa collaboratore di giustizia. I ragazzini vengono rapiti e portati in un casolare nelle campagne a due passi da Caltanissetta. Vengono lasciati per due giorni senza cibo e senza acqua. Nel frattempo si discute del da farsi. Calderone prova a convincere Santapaola che sarebbe bastato spaventarli, senza ucciderli. Ma lui, Nitto, non è d’accordo. Li vuole morti.
E lo fa in modo terribile. Sono portati in un pozzo e, lì, strangolati con delle corde. In seguito, i corpi sono gettati proprio in quel pozzo. Ma c’è un dettaglio, che rende tutto ancora più agghiacciante. Un cugino di Calderone, esecutore materiale del delitto, confessa che non ha avuto il coraggio di stringere fino in fondo il cappio di uno dei ragazzini, che quindi è gettato ancora vivo.
Già, come morire per nulla quando ancora beltà splendea. Per un capriccio di un boss. E per vendetta.
E Nino Calderone, assistendo al massacro dalla sua macchina, avrebbe commentato così:
“Qualcuno può dirmi, ora, se ci sono giudici in grado di giudicare noi altri? O se non fa una cosa giustissima, lodevolissima, chi mi spara e mi ammazza non appena esco da questa stanza? Come potevo restare ancora dentro quella congrega maledetta? Eppure ci sono rimasto ancora diversi anni. Con questa ferita, con questo macigno dentro di me che c’è ancora e ci sarà sempre. Ecco perché mi vergogno ogni volta che entro in chiesa: perché non ce la faccio ad alzare gli occhi. Non è cinema quello che racconto”.
Ma ormai la vergogna era stata consumata…