Acquapendente è un piccolo Comune del Lazio, oggi di quasi 5.500 anime, in provincia di Viterbo, non lontano né dal confine con la Toscana né da quello con l’Umbria. Un grazioso borgo come ce ne sono tanti nello Stivale più bello del mondo. Qui era nato il protagonista di questa domenica. L’ultima di novembre.
Fausto Dionisi. Un appuntato della polizia di Stato. Il nome e cognome ai più, magari, non evocherà nulla perché, purtroppo, si mischia alle tante vittime della stagione più terribile della Repubblica italiana. Quella del terrorismo. Rosso e nero. Rosso, in questo caso.
Dionisi entra in polizia nel 1973 e, dopo aver frequentato le scuole Allievi di Caserta e Bologna, presta servizio al 7° Reparto mobile alla Questura di Firenze, e qui promosso per merito straordinario al grado di Appuntato.
I fatti si consumano il 20 gennaio 1978.
Prima di mezzogiorno, una donna molto giovane suona il campanello dell’alloggio di servizio adiacente al carcere delle Murate, dove abitava il maresciallo degli agenti di Custodia, comandante della struttura penitenziaria. Con uno stratagemma si fa aprire la porta dalla moglie del maresciallo e, tenendola sotto la minaccia di una pistola, fa entrare altri due ragazzi, che subito cominciano a segare le sbarre di una finestra che si affaccia sul cortile interno del carcere. Nel frattempo, i due detenuti Renato Bandelli e Franco Jannotta stanno portando a termine un identico lavoro, cominciato qualche ora prima: cioè finire di segare le sbarre di una finestra della cella in cui erano rinchiusi. Chiaro l’intento: evadere di prigione attraverso l’appartamento del maresciallo di polizia.
Proprio in quei concitati momenti, si aggiunge un altro tassello. Una pattuglia con dentro tre agenti arriva davanti al carcere allertata dalla segnalazione di un autofurgone rubato. Ed è qui che si consuma la tragedia. La volante è colpita all’improvviso e all’impazzata da colpi di arma da fuoco da due terroristi, armati di mitra e pistola.
Fausto Dionisi, che occupa il sedile anteriore destro, è colpito in pieno e perde la vita. Un altro agente, Dario Atzeni, beccato da quattro proiettili all’altezza dell’inguine, riesce a salvarsi dopo un intervento chirurgico. Il terzo membro Oreste Cianciosi, illeso, risponde al fuoco dei terroristi, che riescono a scappare con il lancio di una bomba a mano. Il tentativo di evasione va in frantumi, certo, ma un servitore dello Stato ci ha lasciato la vita. A soltanto 22 anni da poco compiuti.
Passano due settimane, e arriva la prima rivendicazione. Un ciclostilato siglato “Liberiamo i comunisti detenuti nei lager di Stato”. Una seconda arriva quasi un anno dopo, a dicembre dello stesso anno. Un volantino a firma “Prima Linea”, in cui è scritto testualmente che “ci assumiamo tutte le responsabilità politiche e militari dell’attacco alle Murate e allo scontro a fuoco vincente in via delle Casine”.
L’estate successiva, quella del 1980, la polizia arresta una decina di attivisti del gruppo di estrema sinistra. Sette facevano parte del commando protagonista del tentativo di assalto al carcere.
Gli assassini che hanno partecipato all’omicidio Dionisi sono stati condannati a 30 anni di reclusione (poi ridotti a 25 in appello), ma ne hanno scontati solo 12 in applicazione della legge sulla dissociazione dal terrorismo e per altri benefici di legge.
Nel 2000, per alcuni di loro, è stata avviata la pratica della “riabilitazione” al tribunale di Roma. Nonostante il parere contrario della famiglia della vittima, il tribunale ha cancellato le pene accessorie ai condannati, consentendone l’eleggibilità a cariche pubbliche.
Franco Dionisi è medaglia d’oro al valore civile.