Di lui tutti ricordano un significativo episodio. È l’unico cronista che riesce a intervistare Antonietta Bagarella, e proprio nei corridoi del Tribunale di Palermo. Correva l’anno 1971, e la compagna di Salvatore Riina (i due sono fidanzati da tempo, si sposano nel 1974, ma il matrimonio non è stato dichiarato valido), sorella di Calogero e Leoluca, era lì per difendersi dal processo che le poteva costare il confino per quattro anni in un Comune del Nord Italia. Riesce a salvarsi, Ninetta, grazie a un appello strappalacrime ai giudici.
Quel giovane cronista aveva un nome e un cognome. Mario Francese, nato a Siracusa nel 1925, di simpatie monarchiche, e soprattutto, appunto, giornalista.
Di quelli con la G maiuscola. Che voleva raccontare soltanto la verità, soprattutto se scottante. Che usavano taccuino, fiuto e penna per occuparsi, volutamente, di cronaca giudiziaria, soprattutto quella degli appalti. E parlare di appalti, nella Sicilia degli anni ’50, ’60 e ’70, significava sentire profumo di Mafia e di criminalità organizzata.
Il focus principale era per la Diga Garcia – guarda caso a lui dedicata – di cui, in numerosissimi articoli infuocati (uno su tutti, quello del 6 settembre 1977, pubblicato su “Il Giornale di Sicilia”) – ne ha scoperchiato il malaffare, anche perché convinto che si trattasse di un grosso, grossissimo, affare per i Corleonesi. E aveva ragione, perché quel lago artificiale che si trova tra Poggioreale e Monreale ha fatto tantissimi cadaveri e scorrere un mare di sangue.
La carriera lavorativa di Mario Francese è da leccarsi i baffi. Inizia all’Ansa dove faceva il telescrivente, poi passa alla “Sicilia” di Catania, e nel 1958 diventa Ufficio stampa dell’assessorato ai Lavori pubblici della Regione siciliana, incarico che lascerà dieci anni dopo.
Anche perché, nel frattempo, collabora con “Il Giornale di Sicilia”, con cui si interessa della strage di Ciaculli del 1963 (simbolo della prima guerra di Mafia), del processo di Bari nel giugno 1969, dell’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo – 20 agosto 1977 mentre si occupava della morte di Enrico Mattei – e di quello del collega Cosimo Cristina, morto nel 1960 non per suicidio, ma per precisa mano mafiosa, anche se quest’aspetto verrà scoperto soltanto qualche anno dopo.
Nelle sue inchieste entra profondamente nell’analisi di Cosa Nostra, delle sue spaccature, delle famiglie e dei capi, concentrandosi in modo particolare su Luciano Liggio e Salvatore Riina.
Senza paura e tentennamenti. Soltanto in nome di quella verità che deve essere la vocazione dei giornalisti. Con la G maiuscola.
Conseguenza importante, quindi, è che diventa una di quelle persone che vanno messe a tacere. Come è costume fare nella Palermo di quegli anni.
E, in effetti, il coraggioso cronista è presto zittito.
È il 26 gennaio 1979, una sera di 39 anni fa. In pienissimo inverno, perché non è vero che la Mafia uccide solo d’estate.
Mario Francese stava rientrando a casa, ed è assassinato a colpi di pistola molto probabilmente da Leoluca Bagarella, che farà lo stesso, quasi sei mesi dopo, con il capo della squadra mobile del capoluogo siciliano Boris Giuliano.
Oltre a Bagarella, per l’assassinio del giornalista siracusano sono condannati Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco. Il motivo dell’assassinio? “Il movente dell’omicidio Francese è sicuramente ricollegabile allo straordinario impegno civile con cui la vittima aveva compiuto un’approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia degli anni ’70”.
Quando muore, Mario ha un figlio piccolo di nome Giuseppe. Anche lui segue le orme del padre, perché raccoglie i suoi articoli, inchieste, interviste, e non si perde un solo momento del processo a mandanti ed esecutori dell’agguato. Ma non riuscendosi mai a togliersi di dosso quella terribile sera del 26 gennaio 1979, muore suicida nel 2002. Ha soltanto 36 anni.