Il tampone è negativo. Il respiro è tornato regolare, i sintomi patologici regrediti, fino a sparire. È la Domenica di Pasqua e arrivano le tanto agognate dimissioni dall’ospedale. Angela Maria, dopo quaranta giorni di lotta, una “quaresima” di paura e speranza, ha vinto la sua personale battaglia contro il Coronavirus. Al quartiere, ad accoglierla, i sentiti applausi e gli occhi umidi dei vicini, e a casa, ad attenderla, Pasquale, suo marito, in quarantena per positività asintomatica e oggi “negativizzato” pure lui, dopo aver vissuto l’isolamento domiciliare nello sconforto di una forzata lontananza da sua moglie. Per la coppia di coniugi mariottani, il virus che tanto ha scompaginato il libro della loro esistenza, comincia ad essere ormai solo un brutto ricordo. Nel piccolo borgo di Mariotto, le prime notizie della positività di Angela Maria hanno fatto presto a correre sul filo della diceria più incontrollata (che qui, come si sa, non teme la velocità della fibra ottica), ed avevano ingenerato reazioni di incredulità e ansia: il Coronavirus è entrato senza bussare alla porta di un paesino che, a tre respiri dall’Alta Murgia, sente il privilegio della salubrità della natura circostante.
È Angela Maria stessa a fare il resoconto della sua ora più buia, quella della malattia, dell’assenza, della sospensione e poi dell’attesa, durante la quale ha cercato in tutti i modi di tenersi aggrappata al mondo.
Quando ha scoperto di essere positiva al Coronavirus?
«Ho saputo di essere positiva al Covid 19 presso il Pronto Soccorso dell’ospedale del San Paolo, dove sono andata, dopo otto giorni di febbre alta, un tremendo mal di testa e un dolore lancinante alla gola, seguìto da problemi di respirazione. Il mal di testa era così forte che ho chiesto a mio marito di non lasciarmi sola perché credevo di morire. Naturalmente in questi otto giorni siamo stati sempre in stretto contatto con il nostro medico di famiglia Dott. Graziello Schiraldi, e infatti il dottore, venuto a conoscenza dei problemi respiratori, si è attivato prontamente per farmi ricoverare presso il triage Covid 19 del San Paolo, dove sono rimasta per un giorno».
Vuol parlarci dei giorni del ricovero in ospedale? Chi le ha dato la forza di lottare?
«Dopo aver saputo del risultato del tampone, mi è stato suggerito il ricovero al U.O.C Malattie infettive dell’Ospedale di Bisceglie. La mattina seguente ero già presso quella struttura. Lì mi sono sentita tranquillizzata per come i medici hanno preso a cuore la mia situazione, intervenendo presto con tutti gli esami e controlli possibili, così da averne il quadro completo. Ho riposto tutta la mia fiducia in loro e mi sono abbandonata alle mani di Dio».
Che tipo di assistenza ha ricevuto in ospedale?
«Sono stata sùbito attaccata all’ossigeno e poi monitorata costantemente tramite un sensore che rilevava nelle 24 ore battiti, pressione e saturazione dell’ossigeno nel sangue. Per giorni, anzi settimane, sono stata sotto stretta osservazione dei medici, e non mi sono mai sentita sola, benché negli occhi di mio marito e dei miei figli leggessi la loro paura. Ho sentito vicini tanti parenti e amici, che poi ho saputo essersi stretti in preghiera per me, sia a Mariotto, sia in altri paesi vicini, gruppi di condomini ed il gruppo di catechesi di Mariotto di cui faccio parte. Non finirò mai di ringraziarli, tutti. Le molteplici videochiamate e messaggi dei familiari più stretti e degli amici più cari hanno alleviato molto le tristi giornate, in cui però è stato molto confortante ascoltare al telefono le voci di chi ti chiamava “mamma” o “nonna”, in un momento in cui temevo di non poterle mai più ascoltare».
Quando ha cominciato a intravvedere i primi spiragli di guarigione?
«É stato solo dopo diversi giorni, molto altalenanti, con le prime stabilizzazioni dei dati clinici e la certezza, poi, che sarei stata spostata in un’altra stanza, dove generalmente si va per verificare, tramite tampone, la negatività. Dopo l’esito favorevole, ho sentito, forte, il desiderio di ringraziare tutto il personale sanitario, quegli “ANGELI IN TUTA SPAZIALE”, come li ho chiamati, che così amorevolmente mi hanno assistita. Ho scritto su di un foglio tutto il mio riconoscimento per loro, per l’umanità, la responsabilità e l’attaccamento al lavoro, mostrato nei miei confronti. Ricordandomi, infine, di avere con me una coroncina del Rosario che avevo portata da Lourdes insieme al foglio, l’ho attaccata al muro della stanza, poiché lì mancava un segno tangibile di fede».