Professore nei licei e all’università, per dieci anni sindaco di Bitonto, intellettuale a tutto tondo e di altissima levatura, anima del Centro Ricerche e Studi, della Fondazione De Palo Ungaro e del Comitato Feste patronali, Nicola Pice non è mai banale in quel che propone e scrive.
Leggiamo il post vergato questa mattina, che contiene un prezioso suggerimento a chi governa la città.
“Questa è una delle sei tele del Seicento ubicate al di sopra degli stalli lignei del coro del Monastero delle Vergini. Tutte inedite, esse si lasciano ricondurre a Carlo Rosa o comunque alla sua bottega. Questi dipinti, corredati da importanti cornici lignee intagliate e dorate, versano in precario stato di conservazione e necessitano di un intervento di restauro conservativo ed estetico, atto a liberare la pellicola pittorica dalle ossidazioni delle vernici e a restituire luminosità alla delicatezza dei colori e delle figure. Gran bella cosa sarebbe se la collettività bitontina, l’Amministrazione e il Consiglio Comunale, si facessero carico di tale intervento di restauro: questa, sì, sarebbe una vera operazione culturale di lunga durata con attrazione di ulteriore interesse e attrazione turistica per la nostra città, che è stata la fucina di Carlo Rosa. Questo dipinto raffigura il Matrimonio mistico di Santa Caterina di Alessandria, la vergine cristiana, solitaria e pensosa, dedita a speculazioni filosofiche. Essa era la controfigura cristiana di Ipazia, la celebre filosofa pagana, gloria della scuola alessandrina, assalita per strada da una turba di cristiani fanatici che dilaniarono il suo corpo, facendolo a pezzi col taglio di grosse conchiglie. Per sommergere il ricordo di Ipazia, avanzò tra le sabbie egiziane un’altra vergine filosofa, appunto Caterina, anche essa insigne, ma cristiana. Su di lei era sorta la leggenda che, convertita da un eremita, era stata pagana e di classe aristocratica, se non regale; poi i pagani l’avevano uccisa, dopo che da sola aveva tenuto testa ad una cinquantina di filosofi pagani mandati a lei per turbarne la fede e la mente dall’imperatore Massenzio”.
Segue una descrizione particolareggiata dell’opera: “La scena del nostro dipinto mostra un pezzo della leggenda popolare, ossia il momento in cui Caterina, ancora adolescente, ha una visione, quella di Gesù bambino che nella braccia della Vergine le infila nel dito un prezioso anello, facendola sua sposa. In questa narrazione di sapore fiabesco, delicati appaiono il gioco delle linee, l’intonazione dei colori, l’efficace contrasto di luminosità. La esecuzione forbita rivela il tocco sicuro dell’artista, attento nella resa dei dettagli: una preziosa descrizione delle vesti, una fitta intersecazione di movenze, un incastro spaziale che frange le luci e interpone le giuste ombre, senza dimenticare il tono intimistico. Insomma, una suggestiva grazia compositiva di sapore classico, lontana dal manierismo barocco, che si realizza compiutamente nella dolcezza dei volti delle figure e nella fluida resa volumetrica dei panneggi. Di certo non si sbaglierebbe nel cogliere un’eco del purismo di Stanzione e la tersa intonazione classicistica di Pacecco”.
Ed ecco la proposta: “Le sei tele del Monastero delle Vergini meritano di essere conosciute ed ammirate, magari esposte in una mostra (Conversano docet) negli spazi espositivi della Galleria Nazionale o del Museo Diocesano prossimo all’apertura: il loro recupero spetta a noi, non certo alle monache di clausura, che non potrebbero mai sostenere la somma necessaria per il necessario restauro, il cui costo complessivo, come da progetto definito dalla Soprintendenza, si aggira intorno ai cinquantamila euro”.
“Questa sarebbe una azione di indubbio valore culturale per una città che aspira ancora ad essere “capitale della cultura””, la conclusione.
Ora la palla passa a Palazzo Gentile…