Vive da diverso tempo in Italia, a Firenze, dove lavora ed è sposato con Caterina, una ragazza italiana, di Bitonto per la precisione. Hanno due figli di 5 e 2 anni. Ma Tewfima, ragazzo togolese di 27 anni, non ha la cittadinanza italiana. L’ha richiesta, come è suo diritto, ma, ai tantissimi documenti finora forniti, alle mille pratiche burocratiche già seguite, c’è da aggiungere altro. Deve tornare in Libia, il luogo da dove è partito per l’Italia, per richiedere un certificato penale, un documento che attesti la sua fedina penale. Il problema è che è impensabile tornare in Libia alla ricerca di un documento che non può esistere, come racconta il ragazzo nell’intervista concessa a “Famiglia Cristiana“: «In Libia non si può andare, è un Paese in guerra. Pensare di tornare in Libia, dove sono stato schiavizzato e dove ho sofferto ogni sorta di violenza e di sopruso, è una follia. Come può si può pensare che qualcuno che è scappato dall’ inferno ci possa tornare lì a chiedere dei documenti? In Libia ci sono i lager! È chiedere ad un sopravvissuto all’orrore di ritornare lì, sotto le bombe, a richiedere la propria fedina penale, magari a coloro che lo hanno rapito, detenuto, torturato. Sembra una richiesta normale questa? A me sembra assurda».
La storia di Tewfima inizia a Pagala, nello stato di Togo, Africa occidentale, dove, ultimamente ci sono stati scontri armati tra polizia e manifestanti scesi in piazza contro il governo. Scontri di cui il ragazzo fu testimone, dato che si trovava lì, alla ricerca di quei documenti necessari per ottenere il permesso di soggiorno dopo il matrimonio. Fu costretto a tornare, nel pieno delle violenze che imperversavano nel suo paese natìo e proprio mentre sua moglie era incinta, affinché si sbloccasse la pratica per ottenere l’ambito documento, che lui non possedeva, non avendo neanche il passaporto. Per avere un permesso di soggiorno, infatti, ci vuole il passaporto, rilasciato soltanto nel paese di origine. Tewfima era, però, entrato in Italia passando dalla Libia, dove, racconta, ha vissuto per quasi due anni rinchiuso in un garage in condizioni di sfruttamento, eseguendo lavori forzati e subendo pestaggi, torture varie e ogni forma di violenza e umiliazione, difficili da dimenticare, ma anche da raccontare. Dalla Libia, poi, era arrivato in Italia dopo essere stato salvato da una nave italiana.
Mentre lui era a Togo, a migliaia di chilometri di distanza, sua moglie, la bitontina Caterina, con il suo bimbo in grembo, passava le giornate in questura, per assistere il marito nel difficilissimo iter burocratico, nonostante la difficoltà a comunicare causata dall’oscuramento di internet deciso dal governo del paese africano. La costante paura, oltre a quella per l’incolumità fisica, come spiega la ragazza nell’intervista a firma di Katia Fitermann, era che chiudessero le frontiere, impedendo a Tewfima di poter tornare in Italia.
Finalmente tornato a Firenze con il passaporto in mano, prova, dunque, ad ottenere la cittadinanza italiana. È suo diritto, in base alla Legge 286/98, Testo Unico sull’ Immigrazione, che assicura ai cittadini stranieri il diritto superiore all’ unità familiare, garantendo al coniuge straniero del cittadino italiano il permesso di soggiorno per motivi familiari e, a due anni dal matrimonio, o un anno, in presenza di figli, anche la cittadinanza italiana, se richiesta dallo stesso cittadino straniero. Ma, così facendo, si imbarca in un altro iter burocratico, ancora più complesso. Dalla Prefettura del capoluogo toscano, infatti, gli riferiscono che sono necessari il nulla osta dal casellario giudiziario in Libia, il certificato di nascita e il casellario giudiziario del Togo tradotti e legalizzati nel Paese che li produce, dall’ambasciata italiana presente sul territorio di origine dello straniero, pena la non accettazione da parte delle autorità italiane.
Ma nel suo paese natìo non esiste rappresentanza diplomatica italiana. Tewfima deve così andare nel vicino Ghana, dove esiste l’ambasciata italiana che può assisterlo nonostante non sia ghanese. Fin qui, nulla di impossibile, per quanto l’iter sia complesso. Il problema è il secondo viaggio che gli è richiesto. Quello verso la Libia, verso quel centro dove ha trascorso due anni di inferno. Una richiesta che lui bolla come “follia”, anche perché quel documento non esiste.
«Posso capire tutte le esigenze della legge, come il passaporto, i documenti legalizzati presso le ambasciate italiane nei Paesi di provenienza degli stranieri – conclude tra le righe del periodico cattolico – Tutta questa burocrazia rende la vita nostra tanto difficile, ma da africano so che niente è facile, né regalato nella vita e capisco anche che ci siano queste esigenze. Pensare però che un sopravvissuto alla Libia debba tornare in quel luogo per chiedere un documento che nemmeno può esistere, dato che nessuno di noi, ex prigionieri in Libia è mai veramente esistito per quello Stato, che non ci ha mai riconosciuto la dignità di persone umane, davvero non lo posso accettare. Per questo farò ricorso in Tribunale».