Nel suo esistere, l’uomo è chiamato spesso al perdono, al riprendere rapporti con qualcuno che ha, solitamente, agito iniquamente nei suoi confronti. Appare come se, per poter mantenere un rapporto deontologicamente corretto, il perdono sia una pratica imprescindibile.
Il perdono rientra all’interno dei sentimenti che, psicologicamente parlando, rappresentano il punto intermedio di “sentire” collocato tra l’emozione e la passione.
Affinché il meccanismo del perdono possa esser messo in atto, ha bisogno di un’azione a priori e della presenza di due soggetti, genericamente. Questo non significa che l’uomo non possa perdonare sé stesso, ma prima di analizzare questa possibilità, prenderemo in analisi il caso più generale.
– PERDONARE L’ALTRO –
Nei rapporti interpersonali, il perdono è quel meccanismo per il quale due persone tentano di rimuovere azioni da una delle due parti commesse che ha colpito una o entrambe di loro. Quindi, cercano di rimuovere quell’azione in maniera tale da ricostruire il rapporto. In questa maniera, possiamo notare come il perdono sia catalizzato principalmente dall’affettività. E’ imprescindibile che, per perdonare qualcuno, si debba per questi provar affetto; altresì non sarebbe nostro interesse perdonarlo. Oppure, perdonarlo sarebbe nel nostro interesse: ma è effettivo perdono questo, che nasconde la necessità della persona perdonata per scopi personali?
Subito dopo la catalizzazione per affettività avviene quindi la catalizzazione per volontà: provar affetto non implica il voler ricostruire un rapporto, è qualcosa di separato, forse parallelo. La volontà è l’espediente mediante il quale l’uomo agisce, vuole agire, deve agire.
Il punto esoterico del perdono è che per esser tale non necessita che le due persone abbiano la volontà di perdonarsi: non devono avere entrambe volontà di ricostruire un rapporto distrutto, ma è sufficiente, per l’avvenire del meccanismo, che una singola persona ne senta il bisogno.
Ipotizzando questo, possiamo tranquillamente perdonare l’altro senza ritenere di incoercibile necessità che lo stesso altro voglia ricostruire un rapporto: quel che avviene è una dissolvenza d’odio nei suoi confronti all’interno di noi stessi, e ciò non necessita, quindi, che la stessa cosa avvenga per l’altro.
A questo punto, quindi, noi non proviamo alcun odio nei confronti della persona ormai perdonata; lui potrebbe anche odiarci, magari, per esserci allontanati da lui, ma il perdono è avvenuto. Noi non odiamo più quella persona per quello che ha fatto, non la rigettiamo, non la rinneghiamo, ed anzi, capita spesso che la nostalgia delle esperienze passate in sua compagnia ci consumi dentro.
Eppure, da un punto di vista dialettico, il perdono è avvenuto: il fatto che l’altro non voglia ricongiungersi non implica che il perdono non sia avvenuto. Nel nostro interno, abbiamo perdonato lui per quel che ha compiuto, e questo basta, dialetticamente parlando, per essere perdono. Ovvio: in un secondo momento potremo ancora perdonare quella persona per non essersi ricongiunta con noi immediatamente al momento del perdono, ma, in questo caso, saremmo di fronte ad un secondo perdono avvenuto non per le stesse cause del primo. Questo, quindi, ci fa ipotizzare che il perdono sia una forma di rimozione dell’operato altrui più individuale che esterna: siamo noi a dover perdonare a noi stessi il pensiero d’odio nei confronti dell’altro.
Considerando quanto sopraddetto noteremo come il perdonare l’altro sia in funzione di un perdono intrapersonale: per poter compiere il perdono nei confronti dell’altro, dobbiamo prima perdonare noi stessi per aver odiato quell’altro. In questa maniera il meccanismo del perdono verrà messo in moto: ciò indipendentemente dalla risposta positiva o negativa che possa esserci da parte esterna.
– PERDONARE NOI STESSI –
Prima di elucubrare su questa possibilità del perdono bisogna prima puntualizzare qualcosa detto poco fa; ciò per evitare confusione.
Il perdonare sé stessi dell’odio covato per l’altro non può essere considerato, dialetticamente parlando, un perdono di sé: il perdono di sé, all’interno di quel particolare contesto, significa annichilire l’odio proveniente da un’azione considerata da noi iniqua compiuta dall’altro, non perdonare noi stessi di noi stessi. Sinotticamente: dissolviamo l’odio scaturito dall’azione esterna, non perdoniamo noi stessi per aver effettivamente compiuto qualcosa.
Il perdono è, nei rapporti interpersonali, come abbiamo nell’introduzione detto, la rimozione, o il tentativo di rimozione, di azioni inique che hanno colpito una delle due parti, o entrambe. Continuando a seguire questa definizione dovremmo verificarne la veridicità quando si prende in considerazione un rapporto intrapersonale: dobbiamo, per forza di cose, modificare leggermente la definizione.
Pertanto, quando ci riferiremo al perdono di noi stessi, lo prenderemo in considerazione in quanto tentativo di rimozione di un operato da noi eseguito, che ha colpito, a riverbero, noi. Abbiamo, per esempio, fatto del male ad un amico: lui dovrà applicare ciò che detto ne “perdonare l’altro”, noi invece dovremo perdonare noi stessi di aver agito in tal maniera.
La rimozione però avviene non prima del riconoscimento dell’azione compiuta come erronea: per poter rimuovere un operato fastidioso, che ci addolora, dobbiamo prima riconoscerlo tale. Qui entriamo nel campo della consapevolezza di sé: non è detto che qualcosa che ha fatto male all’altro debba essere per noi inoppugnabilmente ritenuto azione iniqua. Non è detto che noi dobbiamo soffrirne. Possiamo essere convinti di qualcosa che abbiamo fatto e che ha procurato malessere nell’altro rimanendo però convinti che sia stato corretto: a quel punto non riconosceremo l’azione come sbagliata e non ci porterà alcun tipo di desiderio di rimozione e di perdono di noi stessi per averla commessa.
A questo punto la questione però divaga su altri punti: il riconoscimento di un’azione non iniqua da parte di colui che la commette significa che realmente questa stessa azione è effettivamente giusta? Eppure il soggetto che soffre considererà, tautologicamente, l’azione sbagliata, non giusta. La relatività del giudizio regna sovrana, e tentare di metter ordine sarebbe nel nostro interesse, ma in quel che stiamo trattando risulta divergente e non attinente: pertanto mettiamo da parte questo discorso.
Da un punto di vista intrapersonale, quindi, prima di attivare il meccanismo del perdono prevale la consapevolezza: per potermi perdonare devo prima essere consapevole del mio agito in maniera tale che possa giudicarlo oggettivamente. Ciò contribuirebbe indirettamente, probabilmente, anche al principio di individuazione.
Perdonare significa rimuovere, ma non distruggere. E vorrei focalizzarmi su questa differenza semantica: non è detto che con il perdono le azioni commesse siano rese nulle, annichilite. Potrebbero ripresentarsi, i due soggetti potrebbero riparlarne e rompere di nuovo, magari definitivamente, il rapporto, pur essendo stato, il loro perdono, puro, sentito e reale. Filosoficamente parlando, l’azione che viene rimossa dal soggetto non risulta annullata della sua esistenza, ma invece diviene un’esistenza contingente: non necessaria ma che potrebbe comunque esistere. Nel nostro caso, tornare ad esistere.
Perdonare è il primo passo con cui ricostruire il rapporto, tentare di rimuovere tutte le scorie inique, rimuovere un passato interpersonale ed intrapersonale dannoso, (ri)costruire un rapporto che garantisca nuovo benessere.