Qualche giorno fa ho programmato un’intervista con una parente del giovane poliziotto bitontino Michele Tatulli, ucciso brutalmente dalle Brigate Rosse l’8 gennaio del 1980 a Milano.
E così dinanzi ad un racconto triste, straziante, doloroso, non sai cosa commentare, cosa rispondere, con chi prendertela per la crudeltà che colpisce al cuore di un giovane 25enne. Ti limiti ad un abbraccio, sperando che in quelle quattro ossa possa passare tutto il tuo sentire, le lacrime che hai soffocato per non sembrare inopportuna.
Non avevo urgenza di fare immediatamente il pezzo, ma ieri sera prima di andare a letto ho avvertito l’esigenza di farlo, per non dimenticare quel che mi era passato negli occhi come delle istantanee un po’ ingiallite.
E poi l’altra mattina lo sappiamo che è successo. Corri e guarda caso prima di ogni cosa, attraversando Piazza Caduti del Terrorismo l’occhio mi cade proprio lì. Sul cippo commemorativo di Michele, coperto da un raso color ocra.
E poi il giubbotto della signora Anna Rosa, ripiegato su se stesso come una foglia d’autunno accartocciata, un piccolo guanto, e una pozza di sangue. L’ennesima, perché la più grande in via Le Martiri era un lago in cui ci ha sguazzato tutta la nostra incredulità, tutto il nostro sdegno, tutto il male che è stato procurato ad una famiglia, ad una intera città.
Due cuori, dirimpetto che si guardavano. Il giovane delle istituzioni, Michele. E la civile, Anna Rosa. Due cuori lontani, ma così vicini.
Due cuori di una comunità che non esiste. Perché è inutile prenderci in giro con le frasi del tipo “Tanto loro (i criminali, i delinquenti) sono numericamente inferiori alle persone per bene”, perché non è così.
Perché quante persone “per bene” finiscono per andare proprio da quella minoranza a comprare “ciò che occorre” per passare serate felici dinanzi ai luoghi allegri della nostra movida? E penso sempre a quell’articolo scritto da Lorenzo Scaraggi, Giornalista (con la G maiuscola non a caso), scritto quattro anni fa per la sparatoria in piazza Partigiani (leggetelo fino in fondo, vi prego: http://bit.ly/2Ce6446) che sembra scritto, l’altro ieri.
Perché quante persone “per bene” quel 30 dicembre scorso hanno voltato il capo, hanno chiuso la finestra, hanno osservato tutto da dietro le finestre, le persiane, e non hanno voluto dir nulla?
Perché quante persone “per bene” hanno utilizzato Facebook per dire quanto “Bitonto fa schifo” e durante le marce, le manifestazioni, le “Io non ho paura”, sono rimaste comode sui divani di casa?
Perché quante persone “per bene” alle 20.00 del 30 dicembre scorso hanno continuato a diffondere “eppiauar” dei loro locali, o a chiedersi dove se in piazza si festeggiasse la vigilia come a Natale per bere e salutare amici, dopo che meno di 24 ore prima era accaduto un fatto così grave? E l’hanno fatto per tutto il 31 mentre dall’altro lato della città, a meno di 500 metri da piazza Cavour si piangeva una innocente?
Perché quante persone “per bene” si sono lamentate delle dichiarazioni di quell’altro, facendo mercimonio politico anche quando c’era da essere silenziosi, composti, turbati?
Perché quante persone “per bene” si sono lamentate dello Stato, delle Forze dell’Ordine, dei pochi uomini, e poi sono i primi che se arriva il tizio di turno per l’estorsione, se subiscono un furto, preferiscono restare a casa, perché tanto “sono tutti collusi”, perché tanto “non serve a niente”?
Allora domani facciamoci pure il sit-in, la manifestazione, la fiaccolata, quel che vi pare. Ma chi ci sarà?
Saremo gli stessi dieci che quest’estate, nel chiostro di san Domenico, parlavano di sicurezza in città? Sì, eravamo dieci, non di più.
E ci saranno tanti sguardi rammaricati, affranti, che verranno mostreranno la loro solidarietà – e di questo vi ringraziamo, ci mancherebbe altro – e poi andranno via. Esattamente come quando ai funerali si sta lì, come degli automi a ricevere condoglianze di gente che, ringrazi, ma non rivedrai mai più.
Ti lasceranno lì a leccarti le ferite, a curare un dolore silenzioso, da cui sempre quei soliti dieci (facciamo 20, dai) proveranno a rialzarsi.
Sempre quei soliti dieci proveranno a fare in modo di dare delle risposte.
Perché alla fine, ragazzi diciamocelo. L’altro ieri quando ho accompagnato un collega di Foggia, alcuni colleghi di Bari nel centro storico passando per strade e viuzze, davanti ai nostri palazzi nobiliari, dinanzi alla maestosità si sono fermati e hanno scattato una foto. Si sono fermati a vedere quanto era bella e hanno detto “Però, che peccato. Bitonto è proprio bella, non ha niente da invidiare a nessuno”.
No, non abbiamo niente da invidiare. Affatto. Proprio per questo, nonostante tutta la tristezza, lo sconforto, gli sguardi truci che ci hanno avvolto, i motorini che sono sfrecciati, le armi che hanno fatto credere a tutti fossero botti di inizio anno in anticipo, bisogna far germogliare qualcosa di buono.
Necessariamente. E che l’anno nuovo in questo sia propizio. Non dobbiamo pianger mai più vittime innocenti, perché con questo 2017 siamo morti un po’ tutti, ma nella resurrezione bisogna sperarci.