Nel 1972 si concluse la V legislatura della Repubblica italiana, iniziata nel ’68, che vide avvicendarsi sei governi (Leone II, Rumor I, Rumor II, Rumor III, Colombo, Andreotti I). Una legislatura che aveva affrontato le rivendicazioni studentesche e operaie a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70, l’avvio della stagione delle stragi, l’inizio della violenza degli anni di piombo. Una legislatura che vide l’approvazione di leggi importanti e innovative come lo Statuto dei Lavoratori e la legge sul divorzio.
Le elezioni del 7 e dell’8 maggio ‘72 si svolsero a seguito dello scioglimento anticipato delle camere, a causa dell’incapacità delle stesse di esprimere una maggioranza di governo e di un clima politico e sociale ricco di fermenti e tensioni di natura rivoluzionaria che sembravano coinvolgere una larga fetta di popolazione, tanto da far temere per l’ordinamento democratico.
Inoltre, per la prima volta dal dopoguerra, i due principali partiti italiani, sia quello di governo, la Dc, che quello di opposizione, il Pci, vedevano la loro posizione insidiata nuove formazioni politiche, nate a sinistra. Formazioni minori che, comunque, mettevano in dubbio l’egemonia dei due partiti: il Movimento Politico dei Lavoratori, il Manifesto.
Furono le prime elezioni anticipate della storia repubblicana, poiché per la prima volta un Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, aveva sciolto le camere prima della naturale scadenza del quinquennio di legislatura.
Inevitabilmente, argomento principale della campagna elettorale fu la crisi economica di cui già dalla fine degli anni ’60 si cominciarono ad avvertire i primi sintomi. Ad aprire la campagna, il 17 marzo, fu lo storico e meridionalista Mario Dilio, di area repubblicana: «Sono almeno tre anni che la nostra economia è in continua disgregazione e questo perché sia le forze politiche che quelle sindacali non hanno avuti chiari i propri limiti e le proprie funzioni. […] Nella prossima legislatura i repubblicani si batteranno per l’unificazione dei tre dicasteri (Finanza, Tesoro, Bilancio e Programmazione): occorre dare vita ad un’autorità in materia di politica economica, che imposti, con una visione globale, i problemi dello sviluppo, evitando così dispersione di energie e coordinamento fra le entrate e la spesa».
Dai palchi bitontini della Dc, tra i primi a parlare fu il senatore Vito Rosa che, intervenendo sull’argomento delle contestazioni verso i partiti maggiori dell’epoca, disse: «Sarebbe un grave errore indebolire la Democrazia Cristiana, proprio oggi che da più parti giungono spinte disgreganti e reazionarie».
Vennero, poi, Renato Dell’Andro, Ettore Picchi, Michele Scianatico.
Per il Psi, Giuseppe Di Vagno, figlio dell’omonimo politico socialista ucciso nel ’21 dai fascisti, mise in guardia l’elettorato dal pericolo rappresentato dalla destra «la quale tenta di strumentalizzare il malcontento e il disagio che scuotono alcuni ceti della società italiana, per assicurare un retroterra di massa alla propria strategia di violenza e fascistizzazione del Paese. È un disegno violento, alimentato da complicità di settori dell’apparato statale e dei poteri pubblici. Ma il vero alleato di questo disegno è l’attuale gruppo dirigente della Dc, il quale, proponendo una linea moderata, centrista, soffoca la domanda di democrazia che viene dai settori più vivi della società».
Oltre a Di Vagno, intervennero, poi, Margherita Barnabei, Nino D’Alena, Beniamino Finocchiaro.
Per il Pci, in comizio parlarono al pubblico Tommaso Sicolo, segretario della Federazione Comunista barese, Giovanni Damiani, Sergio Segre, Giovanni Papapietro, Mario Giannini.
Per il Psiup, parlò Primo Magrone, mentre per il Psdi Vito Massari e il consigliere provinciale Ferrante, che accusò le opposizioni di destra e di sinistra di confondere le valutazioni degli italiani, portandoli ad un giudizio che non scaturiva dall’esame completo della realtà sociale introdotta dal centrosinistra, ma suggestionato dalle difficoltà. Per il socialdemocratico, era in corso un pericoloso attacco ai partiti democratici.
Per il Pri, il candidato Vincenzo Loragno e, per il Pli, a Bitonto, ci fu l’avvocato Ragone, secondo cui per poter realizzare un modello di società libera e democratica, era necessario il nettissimo rifiuto del comunismo, ma anche dell’estremo opposto, «perché il Msi non ha avvenire, come non lo ebbe il pur cospicuo qualunquismo di Giannini, sorto all’epoca da un medesimo moto di protesta, non lo ebbe il Pnm di Covelli».
Per il Msi, infine, l’avvocato Ferdinando Marinelli, Giuseppe Incardona, Antonio Barile, Renato Inguscio, Piero Cerullo, Franco Silvestri. Quest’ultimo accusò la sinistra di connivenza con i piani rivoluzionari scoperti con la morte di Giangiacomo Feltrinelli, trovato morto il mese prima a Milano: «Le forze di destra sono la logica risposta politica e morale ai pericoli che minacciano, in Italia, la libertà e la democrazia».
Le consultazioni riconfermarono la Dc come primo partito e consegnarono nuovamente, con una piccola crescita di consensi, dovuta all’avanzata dei repubblicani, alla coalizione di centrosinistra, la maggioranza assoluta dei voti e, quindi, dei seggi nelle due camere del Parlamento. Socialisti e socialdemocratici confermarono i voti del disciolto Psu, nato sei anni prima, sotto la spinta del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, che voleva una riunificazione dei socialisti, che però durò poco. Nel ’71 i socialdemocratici si staccarono e rifondarono il Psdi, ponendo fine all’esperienza del Partito Socialista Unitario. L’opposizione di sinistra ebbe, con il forte declino del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, che dimezzò i suoi voti, un forte ridimensionamento, che, tuttavia, aveva risparmiato i comunisti, alla cui guida era appena approdato, a marzo, Enrico Berlinguer, confermarono i propri consensi. A destra, il Movimento Sociale Italiano raddoppiò i voti e raggiunse, in quell’anno, il suo massimo storico, anche a causa (ma non in modo tanto rilevante) dell’ingresso dei monarchici che, dopo i fallimenti elettorali degli ultimi anni, avevano sancito un patto con il partito postfascista che portò alla sua trasformazione in Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale. I liberali, infine, persero molti consensi.
La Dc, a Bitonto, si confermò come partito per la Camera con 7643 voti. Seconda forza più suffragata fu il Pci (6875). A seguire Psi (2791), il Msi (2331), il Psiup (727), il Psdi (600), il Pri (302), il Pli (295) e le forze minori di sinistra: il Partito Comunista Marxista Leninista Italiano (61), il Manifesto (40), il Movimento Politico dei Lavoratori (12).
Nessuno dei candidati bitontini alla Camera ce la fece ad essere eletto. Erano candidati il giornalista Antonio Cardone (Pli), Giuseppina Corallo (Partito Comunista Marxista Leninista), Vincenzo Loragno (Pli)
Al Senato, invece, la lista più votata fu quella formata da Pci e Psiup, che raggiunse 6634 voti. La Dc fu la seconda forza politica più suffragata, con 6258 voti, nonostante, nell’intero collegio, fu la prima forza politica, riuscendo ad assicurarsi l’elezione di Vito Rosa. Non ce la fecero gli altri candidati al Senato per il Collegio di Bitonto Pasquale Marinelli (Pci-Psiup), Gioacchino Giangregorio (Msi), Margherita Barnabei (Psi), Domenico Luisi (Psdi), Tangari T. (Pli), Vincenzo Loragno (Pri). Il Psi, a Bitonto, raggiunse 2412 voti, il Msi 2188, il Pri 481, il Psdi 466 e, infine, il Pli 317.
L’affluenza fu del 95,74% al Senato e del 94,87% alla Camera.
Dalla scena politica nazionale sparì Angelo Custode Masciale, che era stato senatore sin dalla III legislatura e che, comunque, si era speso in campagna elettorale per i socialisti. Nessun concittadino viene eletto al Senato. Alla Camera vengono riconfermati, per la Democrazia Cristiana, i bitontini Arcangelo Lobianco (collegio di Napoli), al suo secondo mandato, e il sempre presente Italo Giulio Caiati (nel collegio di Lecce), che di mandati ne aveva già fatti sei e che, dopo l’esperienza al ministero gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, nel ’68 e negli ultimi mesi di legislatura, nel ’72, fu nominato, nel nuovo governo presieduto da Andreotti, ministro per i Problemi della Gioventù. Un ministero nuovo, antesignano dell’odierno ministero delle Politiche Giovanili e sorto sicuramente dopo le rivendicazioni studentesche, ma di cui Paolo Cirino Pomicino dirà ben altro, in un’intervista al Corriere della Sera rilasciata il 18 maggio 2006, dopo la formazione del governo Prodi II. Esprimendo giudizi sulla squadra di governo appena nominata e parlando di Giovanna Melandri, appena nominata al dicastero delle Politiche Giovanili, dirà: «È un flatus voci, non un ministro: le politiche giovanili le fanno i ministri per l’Economia o per il Mezzogiorno, mica lei. Mi ricorda Giulio Caiati, 1972, governo Andreotti II. Per dargli qualcosa, s’erano inventati il ministero per i Giovani. Fu oggetto di frizzi e lazzi. E alla prima crisi, cancellato: l’hanno ritirato fuori dopo 35 anni!».
La VI legislatura vide alternarsi, all’esecutivo, i governi Andreotti II, Rumor IV, Rumor V, Moro IV e Moro V, e vide l’avvento, alla presidenza della Repubblica di Sandro Pertini. Fu una legislatura particolare, in cui avvenne la fine del boom economico, con la crisi del ’73, l’intensificarsi della violenza e l’avvento di nuove tematiche e nuove modalità di impegno e partecipazione politica, di cui, il simbolo fu il referendum abrogativo sulla legge sul divorzio.