Il Sessantotto, come abbiamo già visto nelle puntate precedenti della rubrica, mutò profondamente il modo in cui si manifestava il dissenso. Emersero nuove istanze, nuovi soggetti politici, nuovi movimenti, nuove modalità di fare politica, nuovi luoghi di aggregazione. E nuove correnti, solitamente di estrema destra o estrema sinistra, che contestavano la politica tradizionale, le istituzioni e la società nel suo insieme. Una contestazione di massa che coinvolse studenti, lavoratori, operai e giovani, in generale, e che si diffonde in scuole, università, fabbriche, strade, piazze, circoli.
Ma non solo. Anche luoghi apparentemente più lontani dalla politica risentirono di questo clima politico che, nel bene e nel male, nei suoi aspetti positivi e negativi, caratterizzò quel periodo storico.
Come ad esempio gli stadi. Fu in quegli anni, infatti, che si diffuse un nuovo fenomeno che caratterizzerà il calcio italiano per i decenni successivi, con le sue conseguenze negative legate alle contrapposizioni tra le diverse tifoserie, alle manifestazioni di violenza che hanno, purtroppo, spesso caratterizzato le cronache sportive. In quegli anni, dunque, anche tra gli spalti degli stadi si iniziò a manifestare una forma di dissenso che, fino ad allora, era appartenuta alle piazze, secondo modalità di aggregazione e contrapposizione tipiche della militanza politica di destra e di sinistra. Lungi da addentrarci in questioni meramente sportive, lontane dagli interessi di chi scrive, o dall’affrontare l’argomento ponendo l’accento solamente sulla cronaca degli scontri violenti (non è certo nostra intenzione incappare nell’errore, fatto spesso dalla stampa, di identificare con la violenza la totalità del mondo ultras), parliamo, dunque, di quello che fu un altro aspetto di quel decennio di contestazioni. Sì, perché anche i movimenti ultras trovano lì le loro origini, in quella protesta contro la società, da parte dei più giovani.
Un fenomeno che si accompagna alla crescente diffusione del tifo organizzato che già dagli anni ’50 comincia a caratterizzare la vita sportiva italiana e non solo. In tutta Italia iniziarono a diffondersi club di tifosi organizzati. Anni in cui gli italiani volevano lasciarsi alle spalle le tragedie della dittatura fascista e della guerra. Anni in cui, mentre si affrontavano le difficoltà post-belliche della ricostruzione di un paese devastato dal conflitto mondiale, il nascente miracolo economico faceva sperare in un futuro migliore tanti italiani che combattevano contro la miseria e faceva assaporare un benessere fino ad allora sconosciuto. Anni in cui si cercava una ricostruzione che non fosse solo economica, infrastrutturale, ma anche sociale.
E il dedicare il tempo libero ad uno sport popolare come il calcio era anche un modo per lasciarsi alle spalle i drammatici ricordi della guerra. Il calcio, quindi, diventa sempre più popolare. Il suo pubblico, ampliandosi, diventa sempre più interclassista, sia pur con una fortissima fascia di estrazione popolare, operaia e piccolo borghese. Nascono già negli anni ’50 club di tutte le maggiori squadre italiane e gli appassionati di quello sport, da semplici spettatori di uno spettacolo di intrattenimento, si trasformano in tifosi che si sentono sempre più parte attiva della propria squadra di riferimento. Mutamenti sociali che si verificano specialmente nelle curve, i settori che, essendo più accessibili dal punto di vista economico, sono più popolari, al contrario delle tribune centrali, più costose e occupate da un pubblico più borghese e più semplicemente spettatore. Le curve diventano un luogo sociale di aggregazioni e il teatro di nuovi conflitti.
Una storia raccontata dal giornalista barese Pierluigi Spagnolo, che, nel 2018, ha scritto “I ribelli negli stadi. Una storia del movimento Ultras italiano”, un libro in cui racconta mezzo secolo di vita dei gruppi ultras, le loro origini e la loro genesi, fino agli sviluppi più recenti, che, in questa sede, non interessano.
Il Sessantotto, con i grandi cambiamenti sociali e culturali che porta in Italia e in tutto l’Occidente, porta anche profonde trasformazioni nel mondo delle tifoserie. È quello l’anno che segna l’inizio del fenomeno ultras, con la nascita, nel mese di novembre, del primo gruppo, quello della Fossa dei Leoni del Milan, quello di cui, nel film “Eccezziunale veramente”, è leader Diego Abatantuono.
Il Sessantotto è anche l’anno in cui viene utilizzata, per la prima volta, la parola “ultras”, che non indica, tuttavia, una categoria di tifose, come nell’accezione che, con gli anni si è sviluppata. Ma è l’acronimo di “Uniti Legneremo Tutti i Rossoblu a Sangue”, slogan dei tifosi della Sampdoria e del loro gruppo “Ultras Tito Cucchiaroni”, con minaccioso riferimento agli omologhi del Genoa. Una tendenza che prosegue per tutti gli anni ’70, in tutte le maggiori tifoserie. Il gruppo Ultras del Bari, ad esempio, si costituì nel ’76.
Non è un caso che il ’68 fu un anno spartiacque. Sono, quelli, anni in cui i ragazzi contestavano la società, la politica, cercavano nuove modalità di partecipazione e lotta politica e nuovi luoghi di aggregazione, denunciavano una situazione, a loro dire, di subalternità. Cercavano un’identità. E le curve erano in grado di donare quel senso di comunità e identità di cui i ragazzi avvertivano la necessità. Tra i gruppi che, ogni domenica, affollavano quelle parti dello stadio, si creò un forte legame comunitario, un forte senso di appartenenza, proprio come avveniva nei circoli politici, nei movimenti extraparlamentari. Mondi che non erano separati gli uni dagli altri. Anzi, molti dei ragazzi che in quegli anni infiammavano le piazze e contestavano, erano anche tifosi, molti dei quali iniziarono a frequentare molto di più gli stadi proprio grazie alla politica dei prezzi bassi (questo soprattutto nelle tifoserie delle squadre maggiori, spesso espressioni delle grandi città, dove era più presente il clima da contestazione, e meno nelle tifoserie delle categorie minori). Fu inevitabile, quindi, che la politica entrasse anche in quelle curve abitate dagli stessi che, durante la settimana, per l’una o l’altra causa, manifestavano nelle strade. Del resto, gli stessi calciatori spesso non facevano mistero delle proprie simpatie politiche e della propria ideologia.
La politica radicale trovò una facile breccia tra gli spalti degli stadi, frequentate dagli stessi turbolenti protagonisti della contestazione giovanile. E proprio come i movimenti studenteschi che contestavano la politica, le istituzioni tradizionali, i partiti e tutte le classiche forme di mediazione delle istanze, i nuovi tifosi iniziarono a contestare le società sportive, le forze dell’ordine e a porsi come movimento antisistema. Il movimento ultras, dunque, nacque in quel clima caldo e turbolento delle contestazioni studentesche, esplodendo e radicalizzandosi nell’infuocato decennio degli anni ’70, che videro un’estremizzazione della dialettica politica e che produsse anche violenze di piazza, lotta armata e terrorismo. Le manifestazioni politiche delle piazze italiane fornirono, quindi, in prestito ai gruppi Ultras simboli, cori, ideologie e quella logica di scontro, di contrapposizione netta, di logica “amico-nemico” che, purtroppo, furono anche alla base delle sempre più frequenti espressioni di violenza contro tifoserie avverse o contro le forze dell’ordine. Rivalità di natura politica, ma più spesso frutto di un attaccamento territoriale alla propria città che sfocia nel campanilismo, nella volontà di appartenenza alla squadra della propria città di origine (tranne per le squadre maggiori, che hanno tifosi in tutta Italia). Un campanilismo dalle antiche origini che spinge a vedere il “vicino di casa” come nemico.
Diventarono simboli dei gruppi ultras le mani che mimano le pistole P38, simbolo dei gruppi armati di sinistra, falci e martelli, stelle rosse, immagini di Che Guevara, le anarchiche “A” cerchiate o, dall’altra parte, asce bipenne, svastiche, croci celtiche, aquile naziste e vari elementi della simbologia militarista. I cori nascevano da rivisitazione in chiave sportiva dei testi di inni politici come la marcetta “All’armi siam fascisti”, il canto “Avanti ragazzi di Buda” in favore delle proteste di Budapest o, a sinistra, i canti per i morti dei moti di Reggio Emilia del ’60.
Gli stessi nomi dei club ultras riprendevano quelli dei movimenti che proliferano negli anni ’70, persino quelli che abbracciavano la lotta armata e il terrorismo: nuclei, collettivi, brigate. Ci fu chi prese in prestito la terminologia militare di gruppi d’èlite, con termini come Commandos, o come Arditi, in omaggio ai militari italiani della Grande Guerra e al successivo squadrismo fascista. Ci fu persino chi si autodefinì “fedayyn”, proprio come i terroristi palestinesi di Settembre Nero, autori di numerosi attentati, in quegli anni. Così, “Settembre Nero” diventa “Settembre Bianconero”, le Brigate rosse diventano rossonere.
L’aumento delle violenze spinse lo Stato a reagire sia aumentando i controlli e introducendo nuove restrizioni non solo a quel che si poteva introdurre nello stadio (per evitare armi e possibili strumenti atti a ferire), non solo per allontanare i violenti, ma anche per evitare l’incitamento all’odio che poteva provenire da cori, slogan e simboli.
Oggi, la maggioranza delle tifoserie si definisce apolitica, ma gruppi ultras di estrema destra e di estrema sinistra sono ancora presenti, nonostante la legge 41/07 abbia vietato l’esposizione di messaggi politici sugli striscioni e impedito la riproduzione di simboli politici, proprio per evitare motivi di scontro fisico tra tifoserie ideologicamente contrapposte.