Nel primo appuntamento di questa rubrica ho accennato, utilizzando due opposti termini di paragone, alla crisi subita dal partito politico e a come i suoi effetti siano visibili anche nel contesto locale, in una città come Bitonto, dove, da essere fulcro della politica, sono via via entrati in crisi, tanto che i loro eredi sono stati poi sconfitti, alle ultime elezioni amministrative, da una coalizione fatta da liste civiche dall’identità blanda e dall’organizzazione liquida.
Basta sfogliare le cronache degli scorsi decenni per comprendere quale fossero l’importanza e la forza che avevano i partiti non solo nella politica nazionale, ma anche in quella locale. Alle elezioni comunali si votavano il partito e i suoi candidati al consiglio comunale. Non si votava per il sindaco. Non c’era il voto disgiunto che permette oggi di votare un sindaco per amicizia o simpatia, anche se non affine alle proprie idee politiche. Anzi, neanche si sapeva chi lo sarebbe diventato, dal momento che la nomina del primo cittadino avveniva ad urne chiuse, dopo lunghi confronti tra le forze politiche che avevano partecipato alle competizioni elettorali. Esattamente come avveniva e avviene ancora oggi per il Parlamento, di cui il consiglio comunale era una sorta di riproduzione in scala. Sulla base dei voti ottenuti dai cittadini, i partiti avevano più o meno la forza di imporsi sui concorrenti. E in base a questa forza si facevano alleanze, si indicavano propri uomini da proporre a sindaco e si stilavano anche programmi elettorali, sulla base di confronti.
Erano tanto importanti che il “da Bitonto” ai partiti dedicava mensilmente uno spazio apposito dal titolo “La voce dei partiti”, in cui le segreterie pubblicavano liberamente comunicati, analisi, riflessioni, relazioni congressuali, programmi. Piccola curiosità: la parola “partito” era spesso scritta con la prima lettera maiuscola, quasi ad indicare un qualcosa di superiore da rispettare. Soprattutto nella cultura socialista e comunista, in cui lo strumento del partito è stato lo strumento per mobilitare quelle masse che, nell’Europa tra Ottocento e Novecento, iniziavano, con il graduale allargamento del suffragio, a far sentire il proprio peso nella società industriale.
Per comprenderne quello che un tempo era il ruolo di questa organizzazione politica, infatti, dobbiamo fare un passo indietro, quando questo tipo di organizzazione si affaccia in Europa. Nato già con la Rivoluzione Inglese del XVII secolo, con il diffondersi della Rivoluzione industriale, soprattutto a sinistra, i partiti di massa iniziano ad affermarsi nella forma che abbiamo conosciuto nel Novecento, al posto dei vecchi partiti di quadri o d’élite. Sono modelli di partito nuovi, di stampo ideologico e dotati di una solida struttura organizzativa.
In essi Gramsci, che nel 1921 sarà tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, vi vede la forma di organizzazione più elevata del soggetto rivoluzionario, un intellettuale collettivo che mira a diventare egli stesso Stato, modellandolo a sua immagine e somiglianza. Il pensatore italiano si rifà al Principe di Machiavelli. Ma mentre nell’idea di quest’ultimo è un carismatico principe del popolo a dover guidare il popolo, in Gramsci non può più essere una persona fisica, ma deve essere un’organizzazione più complessa in grado di rappresentare una volontà collettiva. È, dunque, il partito a dover portare il popolo alla fondazione di uno Stato, accogliendo le istanze di una lotta generale, di una rivoluzione.
Lo spiega anche Bertolt Brecht nella sua Lode del Partito:
«Chi è uno ha due occhi,
il Partito ha mille occhi.
Il Partito vede sette Stati,
chi è uno vede una città.
Chi è uno ha la sua ora
ma il Partito ha molte ore.
Chi è uno può essere distrutto
ma il Partito non può essere distrutto,
perché è l’avanguardia delle masse
e conduce la sua lotta
con i metodi dei classici,
che son sorti dalla conoscenza della realtà».
Ma anche nell’area cattolica questo strumento trova i suoi difensori. Don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, prima di approdare a posizioni più antipartitiche, lo accoglie perchè rappresenta un importante soggetto collettivo, attraverso il quale le realtà popolari, e tra esse i cattolici in particolare, possono e devono inserirsi nel processo decisionale dello Stato, provocandone la trasformazione in senso democratico. Nel dopoguerra è con Alcide De Gasperi e Amintore Fanfani che la Democrazia Cristiana assume una struttura organizzativa solida e centralizzata, basata su un’ideologia.
«Sbaglia chi crede che un partito forte sia caratteristica di totalitarismo. Esso rappresenta, invece, la quintessenza della moderna democrazia di massa» furono le parole di Fanfani al congresso di Trento che si tenne nell’ottobre del ’56. L’istituzione del partito trova un altro strenuo difensore in Aldo Moro, che respinse ogni polemica antipartitica, definendola di destra, e indica come fine ultimo della Dc la trasformazione delle masse in elemento portante ed ordinato della vita dello Stato.
Soprattutto in Italia, il partito è il principale fautore della ricostruzione sociale e democratica di una società reduce da anni d’invasione straniera, di dittatura e di guerra civile. Esso riempie quello spazio lasciato vuoto dal precedente modello di governo fascista e dal vecchio Stato monarchico. Quel sistema che sui partiti si erge, quindi, contribuisce alla rinascita democratica ed economica e ad evitare nuove guerre civili in un paese ancora lacerato.
La loro funzione fu talmente importante nella rinascita democratica dell’Italia da essere riconosciuta nella Costituzione, che nell’articolo 49 ne afferma il ruolo senza minimamente disciplinare, volutamente, l’ordinamento interno: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Anche la sezione bitontina della Dc, in un comunicato dell’aprile 1983, pubblicato sul “da Bitonto”, parla del partito come di qualcosa «in grado di promuovere grandi processi nella società civile, di saperli indirizzare verso obiettivi politici». Nel documento, a firma dell’allora segretario Nicola Antonino, si indica il partito come un soggetto politico che «si adegua alle pieghe della società e di essa diventa contestualmente interprete e rappresentante».
Nei prossimi appuntamenti proverò a raccontare tutto questo, attraverso testimonianze e aneddoti di chi i vecchi partiti di massa li ha vissuti dall’interno. Non prima, però, di aver narrato la città dal punto di vista politico, partendo dal voto del referendum del 2 giugno ’46 e dall’avvicendarsi dei governi cittadini.