Il 17 e il 18 maggio 1981 l’Italia fu nuovamente chiamata ad esprimersi in un referendum. Un referendum che divideva profondamente la popolazione e le sue convinzioni etiche e religiose. I quesiti principali, infatti, riguardavano l’aborto. Visto dai cattolici come l’interruzione di una vita e richiesto invece da chi rivendicava il diritto della donna a scegliere, l’aborto era stato depenalizzato e introdotto nell’ordinamento italiano tre anni prima, con la legge n.194 del 22 maggio 1978.
La legge 194 riprendeva una sentenza della Corte Costituzionale del ‘75 che aveva sancito la non punibilità dell’aborto terapeutico e riconosciuto la non equivalenza tra il diritto alla vita di chi è già persona e quello di chi deve ancora nascere. Riprendendo quella sentenza, la legge 194 allargò le possibilità di accesso all’interruzione di gravidanza, arrivando a comprendere la necessità di tutelare non solo il diritto alla salute fisica della gestante, ma anche quello alla salute psichica. Sancendo, quindi, la sostanziale depenalizzazione. Il limite era fissato a 90 giorni dal concepimento.
La legge 194 fu l’epilogo di un lungo processo di battaglie sociali, mobilitazioni e discussioni parlamentare e riprendeva quel percorso iniziato già negli anni precedenti dai movimenti femministi e dai radicali, che aveva portato anche all’introduzione del divorzio. Quel percorso era iniziato era iniziato già nel ’71, quando la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità dell’articolo 553 del Codice Penale, che indicava come reato la propaganda dei metodi contraccettivi. In quello stesso anno i senatori socialisti Arialdo Banfi, Piero Caleffi e Giorgio Fenoaltea presentarono il primo progetto di legge, mai discusso, per l’interruzione di gravidanza.
La legge, ovviamente, non piaceva ai cattolici e alla Chiesa, che vedevano nell’interruzione della gravidanza l’interruzione di una vita e che proposero, attraverso il Movimento per la vita, la cancellazione, tramite il referendum abrogativo.
Ma, per alcuni aspetti, la 194 non piaceva neanche a chi si era battuto per il diritto all’aborto. A causa di alcune modifiche fatte all’impianto originario che garantivano il coinvolgimento del padre nella decisione e abolivano la possibilità, per le minorenni, di decidere autonomamente.
Ben due, dei cinque quesiti, riguardavano l’aborto e che miravano ad abrogare parti della legge 194. Il primo puntava ad allargare la possibilità di abortire, attraverso l’abrogazione di tutti i procedimenti e i controlli amministrativi propedeutici all’aborto volontario. Era stato promosso dal Partito Radicale, che in quegli anni attraversava una sua fase fortunata, con un aumento dei consensi che mai si era registrato prima e che, nel ’79 aveva portato al raggiungimento del 3,5% delle preferenze.
L’altra proposta era stata avanzata dai cattolici del Movimento per la vita e mirava all’abrogazione di ogni diritto a scegliere di porre fine alla gravidanza.
«Siamo qui per difendere il diritto alla vita. Non solo della vita del figlio che nasce, ma anche della nostra stessa speranza. Se l’innocente può essere ucciso in forza d’una legge dello Stato, allora è come se tutti noi, nella vita, non contiamo nulla» aveva detto in una delle manifestazioni che ci furono in provincia di Bari, l’onorevole Carlo Casini, della Democrazia Cristiana e segretario nazionale del Movimento per la vita, che aveva anche criticato la 194 perché, a suo dire, non avrebbe sconfitto la pratica degli aborti clandestini, ma anzi l’avrebbe aumentata. E avrebbe diffuso «l’errata concezione» secondo cui il concepito non è un bambino. Era lo stesso Carlo Casini che, pochi anni prima, nel ’75, da pubblico ministero, aveva chiesto l’arresto dei vertici del Partito Radicale e di altri esponenti di rilievo del fronte abortista.
Ai cattolici fecero da contraltare i radicali, sostenuti da socialisti, comunisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali.
«Il, Psi è per il mantenimento della legge 194, perché crede in uno stato laico che non regola le coscienze, ma dà risposte ai problemi sociali. Perché è contro le ipocrisie del Movimento per la vita, che non si è mai fatto portavoce di una battaglia contro gli aborti clandestini. Perché crede nell’autodeterminazione delle donne. Perché è convinto che solo le strutture pubbliche debbano evitare le discriminazioni tra l’aborto delle donne ricche e di quelle povere» fu, invece, l’intervento, sempre a Bari, della sottosegretaria socialista Maria Magnani Noya.
Oltre che sull’aborto, gli italiani furono chiamati a pronunciarsi anche sull’abolizione della legge Cossiga, istituita a fine anni ’70, per affrontare l’emergenza del terrorismo. Con la proposta di abrogazione i radicali intendevano abolire l’ergastolo, le misure per l’ordine pubblico che erano state introdotte con la legge Cossiga, le norme per la concessione del porto d’armi.
In tutti i casi, a prevalere furono i “no”. Un netto “no” all’abrogazione dell’aborto, voluta dai cattolici, ma anche alle proposte dei radicali. Gli italiani si pronunciarono per il mantenimento delle norme e la legge 194, quindi, non fu modificata.
Per il primo quesito, sulla legge Cossiga, i “sì”, in tutta Italia, furono il 14.88%, mentre i “no” l’85.12%. Sull’abrogazione dell’ergastolo prevalsero i contrari, con il 77,37%. Stessa cosa per il quesito sul porto d’armi, che vide i contrari raggiungere l’85,92%.
Sull’aborto, fu bocciata dall’88,42% dei votanti la proposta di allargare ulteriormente, oltre i limiti imposti dalla 194, la possibilità di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. Più divisione, invece, ci fu sull’ultimo quesito, quello proposto dal Movimento per la vita, per abrogare totalmente la legge i “no” furono il 68%, mentre i “sì” il 32%.
Una sconfitta dei cattolici, a dimostrazione di una società che si era sempre più secolarizzata. Ma l’esito del referendum non fu neanche una totale vittoria dei radicali, che sugli altri punti erano stati bocciati.
La stessa distribuzione tra voti favorevoli e voti contrari ci fu a Bitonto, dove al primo quesito, i “no” furono 17894, mentre i “sì” 3495, al secondo furono 1784567 contro 4067, al terzo 18588 contro 2916.
Anche sul referendum il voto bitontino non si discostò da quello nazionale. Mentre la proposta radicale di rafforzare la 194 venne bocciata da 18383 dei votanti, contro il 2844 dei sostenitori, meno ampio fu il distacco tra i favorevoli e i contrari all’abrogazione totale della legge. 14542 bitontini votarono affinchè l’impianto normativo rimanesse in piedi, contro 7031 che si espressero a favore della cancellazione.