La ricerca del consenso, oggi, non si esaurisce nella campagna elettorale. Continua anche oltre l’appuntamento elettorale. Un costante e continuo tentativo di rimanere sulla cresta dell’onda, di mantenere la popolarità.
Un’affermazione che, nell’epoca del web, dei social network, dei like e delle condivisioni, è ovviamente banale. A tutti i livelli dell’azione politica, dal nazionale al comunale, i protagonisti della politica odierna sono alla continua ricerca del consenso sia attraverso un opportuno uso della propria immagine, sia un uso che garantisca il più ampio apprezzamento possibile ai propri contenuti, opportunatamente ricercati in base alle tendenze del pubblico. Un’ossessione verso la comunicazione politica a cui ci siamo ormai abituati.
Ma tutto ciò non era affatto banale tra gli anni ’70 e gli anni ’80, quando internet non esisteva. Quando le identità politiche erano ancora molto forti, tanto da non rendere necessaria un’eccessiva comunicazione, dal momento che la gran parte dell’elettorato si riconosceva in un’idea, in un partito a prescindere dal modo di comunicare del leader di turno.
Era il 1980 quando il giornalista e consulente politico statunitense Sidney Blumenthal pubblicò “The permanent campaign”, libro che potremmo definire, con il senno di poi, profetico, scritto in un’epoca in cui erano solamente stampa, radio e televisione i mezzi che un politico poteva usare per raggiungere il più vasto pubblico possibile, scavalcando le strutture e le gerarchie di partito, con le loro funzioni di filtro e di mediatori del messaggio da far passare.
Blumenthal, che, negli anni ’90, sarebbe diventato consulente di Bill Clinton, in quel libro osservò un fenomeno che, negli Stati Uniti aveva iniziato a prendere piede già dagli anni ’60 e lo descrisse attraverso interviste a politici e consulenti protagonisti di quegli anni: il fenomeno della campagna elettorale permanente, “ideologia del nostro tempo”.
Ideologia di un’epoca in cui le appartenenze di partito si indebolivano e con esse la legittimità dei partiti e delle loro strutture, in cui aumentava la quantità di elettori i cui voti non erano già assegnati in funzione di una visione ideologica, ma fluidi, instabili, in continua oscillazione tra un partito e l’altro, tra un candidato e l’altro. Di un’epoca in cui la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, radio, ma soprattutto tv, consentivano una comunicazione diretta, non filtrata dalle strutture di partito.
Blumenthal notò che la campagna elettorale non era più un momento temporale limitato alla conquista dei voti, ma continuava anche oltre e coinvolgeva sempre più l’attività di governo, dopo l’elezione del candidato. E notò che, conclusa la fase elettorale, sorgeva già la necessità di prepararsi per la successiva e per la rielezione, conquistando sempre più un consenso pescato da quell’elettorato fluido e non più cristallizzato a cui abbiamo accennato. Una ricerca del consenso che rendeva necessaria una costante presenza sui mezzi di comunicazione di massa, con i messaggi giusti, con la giusta immagine da promuovere, per offrire agli elettori quel che vogliono. Quasi fosse un prodotto da pubblicizzare e vendere.
In questo contesto, dunque, si affacciò sempre più prepotentemente la figura del consulente politico, con il compito di studiare le tendenze dell’opinione pubblica e suggerire al politico cliente le mosse da fare per attirare ora un pubblico, ora un altro e per rubare all’avversario temi ed elettori.
«I consulenti politici sono il nuovo potere nel sistema politico americano. Sono permanenti; i politici sono effimeri. I consulenti hanno soppiantato i boss del vecchio partito nel ruolo di collegamento con gli elettori. […] Non sorprende che l’avanzata dei consulenti sia parallela al declino dei partiti» scrisse il giornalista statunitense, che attraverso le sue interviste spiegò come spesso, per erodere ulteriormente il vecchio voto basato sull’appartenenza politica si iniziò ad agire sull’alienazione, sulla disaffezione di sempre più votanti, dando vita a «campagne antipolitiche con effetti devastanti». E notò come iniziò a farsi sempre più spazio nella politica la figura dell’outsider, colui che non proveniva da un’esperienza di militanza attiva in un partito politico, ma era estraneo ad esso, scelto in base all’appeal (basti pensare che, dopo due anni dall’uscita del libro, ad essere eletto presidente fu l’ex attore cinematografico Ronald Reagan).
«Diversi fattori hanno reso possibile tutto ciò, ma il ruolo più incisivo è stato quello del declino dei partiti» sostenne ancora l’autore, che, riportando il pensiero di uno dei consulenti da lui intervistati, Patrick Caddel, scrisse anche gli aspetti negativi della nuova politica, come la difficoltà a trattare argomenti importanti, ma non così sentiti dall’opinione pubblica: «Non penso che abbiamo necessariamente migliorato la qualità dei politici. Non sono convinto che i nuovi politici siano superiori rispetto alla classe politica che hanno sostituito. […] Abbiamo creato un sistema in cui non ci sono ricompense nel trattare argomenti che sono fondamentali».
L’analisi di Blumenthal si limitava al contesto statunitense, ma non per questo è a noi estranea, dal momento che il declino dei partiti politici ha colpito tutto l’Occidente e anche l’Italia, con una forza che iniziò a mostrare i suoi effetti già dagli anni ’70, come abbiamo visto più volte nel corso di questa rubrica. Il venir meno di quella legittimità data dai partiti politici ha fatto in modo che prendesse piede un altro tipo di legittimità, dato dalla presenza nei nuovi mezzi di comunicazione, a cominciare dalla televisione, che dagli anni ’50 e ’60 era entrata sempre più nelle case degli italiani. E che, dalla liberalizzazione delle frequenze televisive del ‘76, aveva aumentato a dismisura l’offerta con il dilagare delle tv private. La comunicazione politica ha avuto via via un ruolo sempre maggiore, portando all’avanzata di consulenti politici, spin doctor, esperti della comunicazione con il compito di disegnare le strategie per mantenere vivo e alto il consenso.
Parliamo di un periodo in cui, per mezzi di comunicazione di massa, si intendono radio e, soprattutto, televisione. E, come sappiamo oggi, con l’avanzata della tecnologia e l’emergere di nuovi strumenti, il fenomeno, negli anni, è aumentato sempre più, permettendo ai nuovi leader politici, spesso outsider e candidati in funzione antipolitica, non solo di scavalcare le strutture di partiti sempre più disgregati, ma, con l’avvento di internet e, in particolare, dei social, di saltare anche quell’opera di mediazione svolta dalla stessa televisione, con i suoi tempi, i suoi spazi predefiniti. E di parlare, quindi, sempre più direttamente con l’opinione pubblica. Non solo a livello nazionale, ma sempre più anche a livello locale, con il web che consente un più facile accesso della televisione, permettendo, quindi, anche ai sindaci di dialogare direttamente con il pubblico. Anche se con sempre meno capacità di affrontare contenuti che non siano popolari e sentiti nell’opinione pubblica. Una comunicazione che ha, dunque, il sopravvento sui contenuti.
Argomenti, questi, su cui ritorneremo più in là.