Quella del terrorismo nero fu una violenza feroce, certo. Una violenza che colpì e indignò un intero paese. Ma a colpire direttamente la città di Bitonto fu il terrorismo di colore opposto. Quello rosso. Fu, infatti, per mano dei terroristi di estrema sinistra che, la mattina dell’8 gennaio 1980, perse la vita il poliziotto bitontino Michele Tatulli, ucciso insieme a due colleghi in quella che è tristemente ricordata come strage di via Schievano.
Era il 1980. Gli anni ’70 erano appena finiti, portandosi con loro quell’estrema conflittualità che li aveva caratterizzati e che aveva provocato lacrime e sangue. Gli anni di piombo, fortunatamente, volgevano al termine, dando inizio ad un decennio caratterizzato da un allentamento delle tensioni politiche, dal declino delle formazioni terroristiche, ma anche da un sempre maggiore disinteresse verso la sfera politica.
Ma, per comprendere il contesto in cui si consumò la tragedia di Tatulli, bisogna risalire indietro di oltre dieci anni. Fino alla fine degli anni ’60. È, infatti, nella fine di quel decennio e da quell’ondata di contestazioni operaie e studentesche conosciuta come “Sessantotto” che si trovano i germogli velenosi del terrorismo rosso. Calata l’ondata contestatrice (riesplosa brevemente con il Movimento del ’77), ridimensionato il fenomeno dell’esplosione dei movimenti extraparlamentari di sinistra, a rimanere attive, infatti, furono le organizzazioni più estremiste, quelle che scelsero che di seguire la strada della lotta armata.
Non fu, ovviamente, un fenomeno solamente italiano. In tanti paesi, specialmente in quelli dell’Occidente capitalista, nacquero organizzazioni terroristiche di estrema sinistra. In Francia, dove nell’80 si costituì Action Directe, in Belgio con le Cellule Comuniste Combattenti, in Germania Occidentale con la Rote Armee Fraktion, meglio nota come Banda Baader Meinhof, in Grecia con l’Organizzazione Rivoluzionaria 17 Novembre, in Gran Bretagna, con l’Angry Brigade e con l’Irish National Liberation Army, gruppo che alla lotta marxista unì le rivendicazioni separatiste dell’Irlanda del Nord. Persino negli Stati Uniti con i Weather Underground. Un fenomeno che toccò anche il Medio Oriente, specialmente in Turchia, dove all’azione del movimento Dev Sol, si affiancò quella del Pkk, che unì alla causa comunista le rivendicazioni indipendentiste dei curdi, e in Palestina, con il Fronte Popolare per la Liberazione Palestinese, che abbracciando anche l’indipendentismo, fu responsabile di diversi attentati.
Diverse furono le organizzazioni terroristiche comuniste in Sud America, dove tra le formazioni più famose ci furono le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane), e in Giappone, patria di una delle più pericolose sigle del terrorismo rosso internazionale, l’Armata Rossa Giapponese, rea di attentati terroristici anche al di fuori dell’arcipelago nipponico.
Ma torniamo in Italia, dove, come abbiamo visto già nelle puntate precedenti, c’era già un pericoloso clima di estrema polarizzazione e conflittualità. Un caos già alimentato dal terrorismo nero, dai tentativi eversivi di settori dello Stato italiano, dalla crisi economica che aveva posto la pietra tombale al miracolo economico e dalle contestazioni che imperversavano in tutta la penisola. Come già accennato, fu questo il contesto che diede i natali ad un terrorismo che, rispetto a quello nero, presente già dagli anni ’60, fu successivo, affermandosi in tutta la sua drammaticità solo dalla metà del decennio.
Anche se il movimento sessantottino, nelle sue componenti maggioritarie, non aveva in progetto una rivoluzione da realizzare attraverso la lotta armata, fu dalle sue fila, dalle sue istanze antiautoritarie, dai suoi movimenti extraparlamentari, che emerse una successiva radicalizzazione che si palesò violentemente negli anni ’70. Ma di cui già negli anni immediatamente precedenti si erano già manifestate pericolose avvisaglie.
Come riporta la relazione della Commissione Parlamentare sul Terrorismo, «il passaggio decisivo alla estremizzazione dello scontro sociale e, quindi, alla lotta armata può individuarsi in due eventi che segnano il tardo autunno del 1969. Il primo è lo sciopero generale proclamato dai sindacati per il 19 novembre 1969, che indicono a Milano un comizio al Teatro Lirico al centro della città, dove il sovrapporsi alla protesta sindacale di un corteo organizzato da formazioni di sinistra extraparlamentare a prevalente componente studentesca, determinò i disordini in cui morì Antonio Annarumma (poliziotto ucciso da ignoti manifestanti con una spranga di ferro, ndr). Il secondo, sempre a Milano, è la strage di piazza Fontana».
Due fenomeni che la Commissione individua come spartiacque tra le contestazioni e la successiva esplosione della violenza, che ebbe, almeno agli inizi, una componente ideologica che si proclamava erede della Resistenza partigiana al fascismo: «Si pensi, come esempio certamente non esaustivo all’esperienza individuale di Giangiacomo Feltrinelli, che giustificava la scelta dell’organizzazione armata e clandestina, con la necessità di contrastare un golpe autoritario e militare ritenuto imminente; anche se va riconosciuto che tale aspetto scemò nell’evoluzione successiva, a mano che un disegno sempre più segnatamente rivoluzionario e quindi antidemocratico venne a delinearsi».
Una componente resistenziale comune a tutta la sinistra extraparlamentare e al movimento sessantottino, che vedeva con sospetto lo Stato italiano per via dei tentativi di svolta autoritaria che già dal Piano Solo del ’64 c’erano stati. Del resto, lo stesso gruppo di cui Feltrinelli era fondatore e leader si chiamava “Gruppi d’Azione Partigiana”, responsabile solamente di azioni propagandistiche, come le interferenze nelle frequenze della Rai e, forse, un tentativo di sabotaggio ad un traliccio a Segrate, dove lo stesso editore Feltrinelli rimase ucciso dalla bomba (ma le dinamiche sono tuttora poco chiare).
Con lo spegnersi dell’ondata di manifestazioni, dunque, la sinistra più radicale raccolse sempre più l’inquietudine dei giovani, una parte dei quali si convinse che l’unico metodo per acquisire diritti fosse la violenza, la lotta armata contro lo stato.
Primi teorici della lotta armata furono gli esponenti di Potere Operaio e, successivamente, di Autonomia Operaia. Un’anima del movimento sessantottino e, poi, di quello del ’77, caratterizzata dalla promozione nuovi metodi di lotta politica che prevedevano l’azione diretta, attraverso la riappropriazione di spazi e beni rivendicati come diritto, come case abbandonate o sfitte, gli espropri proletari nei supermercati, la spesa proletaria, l’autoriduzione di bollette e dei prezzi dei servizi. E che, sin dai primi anni ’70, sulla stampa di estrema sinistra teorizzò anche la lotta armata, fornendo terreno fertile alla nascita del terrorismo. Tanto che, nel ‘79, quando ebbe inizio il processo contro i leader di Autonomia Operaia, tra cui Toni Negri e quelli che, come lui, furono definiti “cattivi maestri”. Le bottiglie molotov e le pistole P38 divennero un triste simbolo di quegli anni.
Escludendo i primi tentativi eversivi di Feltrinelli, che non fecero vittime a parte lui stesso, la prima vera organizzazione terroristica fu il Gruppo XXII Ottobre, nato a Genova da ex partigiani marxisti-leninisti, responsabili di attentati dinamitardi (dimostrativi, senza vittime), del rapimento di Sergio Gadolla, figlio di un industriale genovese, e dell’omicidio del giovane fattorino Alessandro Floris, che tentò di opporsi al furto della sua valigia, contenente soldi dell’Istituto Autonomo Case Popolari.
Fu da queste esperienze che nacquero e si svilupparono le Brigate Rosse, la principale organizzazione terroristica comunista degli anni di piombo, autrice di sequestri e omicidi, ai danni di forze dell’ordine, magistrati, giornalisti, politici, docenti universitari e persino un sindacalista della Cgil, Guido Rossa, colpevole di aver denunciato un brigatista infiltrato nella fabbrica in cui lavorava, colpevole di essere una spia. Un omicidio che per le Br si rivelò un boomerang, dal momento che, uccidendo un sindacalista di sinistra, videro diminuire drasticamente quei consensi nelle fabbriche. Fu il ’78 l’anno in cui la violenza brigatista raggiunse il suo culmine, quando, a marzo, in via Fani a Roma, uccisero due carabinieri e tre poliziotti e rapirono il Presidente del Consiglio Aldo Moro, che verrà ritrovato morto due mesi dopo. Vicenda che segnò profondamente la politica italiana, interrompendo quel dialogo tra Dc e Pci noto come “compromesso storico”.
Purtroppo, gli agguati delle Br continueranno anche negli anni ’80, come ben sa la città di Bitonto che si vide strappare un suo concittadino a soli 25 anni. La morte di Michele Tatulli e dei suoi colleghi Antonio Cestari e Rocco Santoro fu il barbaro messaggio di accoglienza per il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che si era appena insediato a Milano. A sparare le pallottole letali furono Nicolò De Maria, Barbara Balzerani, Mario Moretti e Nicola Gianicola, esponenti della colonna Walter Alasia, divisione milanese delle Br dedicata all’omonimo giovane terrorista, ucciso nel ’76 in un conflitto a fuoco con la polizia.
Le Br non furono l’unica organizzazione terroristica rossa ad insanguinare l’Italia e a rendersi colpevole di crimini efferati. Altre organizzazioni armate, moltiplicatesi a partire dal ’70, agirono parallelamente o in complicità con i brigatisti, compiendo rapine, ferimenti, sequestri e omicidi. Organizzazioni non meno pericolose delle Br come i Nuclei Armati Proletari, Prima Linea, i Proletari Armati per il Comunismo, i Comitati Comunisti Rivoluzionari, le Unità Comuniste Combattenti, le Formazioni Comuniste Combattenti e la Brigata XXVIII marzo, che fu responsabile dell’omicidio del giornalista Walter Tobagi.
«La forza politica più ostile alle Br non fu la Dc, ma il Partito Comunista Italiano. Se non ci fosse stato un controllo del Pci, sarebbero stati molti di più quelli che avrebbero aderito ai movimenti estremisti» ci disse l’ex esponente del Pci Giuseppe Rossiello. E, in effetti, molti di coloro che fecero parte della sinistra extraparlamentare, poi, tornarono nel Pci, a cui, in molti casi, comunque si era orientati in occasione delle elezioni, come confermò anche il professor Sabino Lafasciano, che aggiunse: «Il terrorismo riuscì dove non era riuscita la polizia».
Ed infatti fu anche e a causa dell’enorme tensione politica dovuta al terrorismo e alla successiva repressione delle forze dell’ordine, se, negli anni successivi, quell’ondata movimentista e, più in generale, quella voglia di partecipazione politica che, a torto o a ragione, era espressa da essa, si spense sempre più, lasciando il posto ad una successiva era di disinteresse, di disimpegno.