Agli inizia degli anni ’90, il clima di ostilità verso le istituzioni, la politica e i suoi rappresentanti, i partiti politici, si acuì e giunse al massimo livello. Abbiamo già avuto modo di accennarne, parlando dell’introduzione, nell’ordinamento italiano, della riforma degli enti locali, che introdusse diverse novità come lo Statuto comunale, il difensore civico e le Città Metropolitane.
I primi anni ’90, infatti, rappresentarono un momento particolare della storia d’Italia. E, di conseguenza, anche di quella locale. Un periodo in cui forte era l’avversione alla politica di Roma. Un clima fortemente antipolitico di cui, nel bene e nel male, era figlio anche quella voglia di maggiore autonomia locale e quella voglia di difendersi da una politica vista con scetticismo e sospetto. Fortemente alimentato da destra, da sempre tendenzialmente e ideologicamente più ostile alla politica dei partiti tradizionali, ma, nella stessa misura, anche da sinistra, che in quel periodo storico, dopo la sconfitta del blocco sovietico nella Guerra Fredda, dopo l’89 e dopo la crisi dei partiti politici tradizionali che perdurava da due decenni, cercava una nuova legittimazione e una nuova identità.
Basta leggere le cronache politiche locali e gli editoriali del tempo per accorgersi come, anche nei livelli più periferici dell’agire politico, crebbe, da destra come da sinistra, una narrazione antipolitica che si fece sempre più largo nell’opinione pubblica. Anche grazie all’azione della sinistra televisiva, che, rincorrendo il risentimento delle piazze nei propri programmi televisivi, facilitarono l’avanzata di un clima antipolitico che finì per penalizzare, tuttavia, la stessa sinistra che l’aveva promossa e per facilitare successivi populismi, a partire da quello berlusconiano.
E anche la principale assise cittadina, il consiglio comunale, iniziò ad essere vista con sospetto e scetticismo, come luogo di lunghe quanto infruttuose discussioni, lontane dal sentire comune della gente della strada, del cittadino comune, in un linguaggio che, quest’ultimo non era in grado di comprendere, il cosiddetto «politichese, che non conclude niente, che dice tutto e il contrario di tutto», come scrisse nel gennaio ’90, un esponente cittadino del Partito Comunista Italiano sulle pagine del “da Bitonto”, in occasione della crisi di maggioranza di fine ’89 e in vista delle elezioni amministrative. Non più, dunque, luogo di confronto su tematiche complesse riguardanti la città, ma luogo chiuso, insensibile alle istanze del popolo.
Si diffuse anche a Bitonto quell’idea che partiti politici, ma anche sindacati e altri classici istituti di mediazione, stessero solamente a guardare senza saper fare nulla di efficace, nel migliore dei casi. O, nel peggiore, che fossero interessati solamente «ad ottenere posizioni di maggior privilegio, al fine di controllare meglio e spremere il cittadino a proprio uso e consumo». Una partitocrazia “invadente” (riflessione pubblicata su “da Bitonto”, aprile 1990), «come la morfina, che annebbia e mantiene inerti tutti coloro che, essendo stati prescelti all’insegna dell’interesse di partito, non operano certamente nell’interesse della collettività. […] È necessario, prima che sia troppo tardi, eliminare l’invadenza della partitocrazia dispensatrice di clientelismo, lottizzazione e dequalificazione».
Potremmo dilungarci ancora tanto, citando altri esempi di come, nella vulgata comune di inizio anni ’90, il partito politico divenne qualcosa di negativo, di opprimente e inutile allo stesso tempo. Qualcosa di cui, anche la sinistra, che di esso ne aveva storicamente fatto uno strumento di lotta politica traendo notevoli successi, si voleva liberare.
Per una parte molto consistente dell’opinione pubblica e della politica stessa, il partito era diventato l’artefice di tutti i mali della società. Un ostacolo alla modernizzazione di Bitonto e dell’Italia. Qualcosa da indebolire con riforme che, di lì a breve, avrebbero visto la luce, anche grazie agli stessi partiti che, alla ricerca di una nuova voglia di legittimità presso l’opinione pubblica, fecero a gara a rincorrere il vento antipolitico e antipartitico.
La prima di queste riforme sarà quella della riforma elettorale che, sulla spinta del referendum del ’91 (torneremo su quest’argomento domenica prossima), porterò alla fine del sistema proporzionale e all’introduzione del maggioritario. Si preparò, dunque, il terreno per quella “grande slavina” di cui parlò lo storico Luciano Cafagna, che portò ad una vera e propria crisi della democrazia e alla fine dei tradizionali partiti della prima fase della storia repubblicana italiana, ribattezzata, in seguito, Prima Repubblica. Si rivelerà, come vedremo, un’illusione. I partiti scomparvero, ma i problemi che ad essi si attribuivano rimasero e, talvolta, si acuirono.