Abbiamo raccontato, nella puntata precedente, delle elezioni politiche del 1963, che portarono alla formazione della IV legislatura, durante la quale si susseguirono tre esecutivi: il primo governo Leone e i primi tre governi Moro.
Quel che, tuttavia, non abbiamo detto, riservandoci di parlarne nella puntata odierna, è che quelle elezioni sono le prime in cui si votò per un Parlamento riformato. Poco più di due mesi prima, infatti, era stata approvata la riforma costituzionale che aveva modificato il numero dei deputati e dei senatori, di fatto riducendolo. Si arrivò, così a quei 630 deputati e 315 senatori che costituiscono il numero attuale. Numero che oggi, con la riforma approvata e sottoposta al referendum del 29 marzo prossimo, si vuole ridurre ulteriormente a 400 deputati e 200 senatori, perché, secondo un mantra ricorrente nella storia repubblicana italiana, l’Italia avrebbe troppi parlamentari.
Ma come si giunge all’odierno numero dei componenti delle due Camere? È, questa, una domanda che in pochi si pongono. E, quindi, anche per una migliore consapevolezza del voto di questo mese, approfittiamo per parlarne oggi.
Secondo i padri costituenti per dare un’adeguata rappresentanza a tutta la popolazione italiana, a tutte le sue variegate istanze, era necessario un numero di deputati e senatori che fosse direttamente proporzionale al numero di abitanti e in grado di garantire la rappresentanza in Parlamento di tutti gli interessi del Popolo italiano. Così, nel secondo dopoguerra, quando fu redatta la carta costituzionale, con una popolazione di circa 46 milioni di abitanti (oggi siamo circa 60 milioni), si decise di non fissare un numero prestabilito, per lasciare flessibilità al Parlamento, con il variare della demografia del paese.
Intenso fu il dibattito sulla questione.
«La Camera dei deputati è eletta o suffragio universale e diretto, in ragione di un deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila. Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i venticinque anni di età» recitava l’articolo 56 nella sua forma originaria, mentre il 57 riportava: «Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale. A ciascuna Regione è attribuito un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila. Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sei. La Valle d’Aosta ha un solo senatore».
Secondo il progetto del repubblicano Giovanni Conti, appoggiato dal liberale Luigi Einaudi, nella Camera ci sarebbe dovuto essere un deputato per ogni 150mila abitanti, per evitare un affollamento che non avrebbe costituito alcun vantaggio, mentre il democristiano Giovanni Fuschini, trovando che un deputato non sarebbe mai riuscito a soddisfare le necessità di così tanti cittadini, propose la proporzione di uno a 80mila. La proposta di Fuschini si associarono i comunisti e il loro capogruppo Palmiro Togliatti, secondo cui un numero troppo basso di rappresentanti «distacca troppo l’eletto dall’elettore; […] perché l’eletto, distaccandosi dall’elettore, acquista la figura soltanto di rappresentante di un partito e non più di rappresentante di una massa vivente, che egli in qualche modo deve conoscere e con la quale deve avere rapporti personali e diretti».
Sulla questione costi fu, invece, il comunista Umberto Terracini ad esprimersi: «Quanto alle spese, ancora oggi non v’è giornale conservatore o reazionario che non tratti questo argomento così debole e facilone. Anche se i rappresentanti eletti nelle varie Camere dovessero costare qualche centinaio di milioni di più, si tenga conto che di fronte ad un bilancio statale che è di centinaia di miliardi, l’inconveniente non sarebbe tale da rinunziare ai vantaggi della rappresentanza».
Stessa cosa per il Senato, dove si scelse la proporzione di uno a 200mila.
Nel 1963, dunque, si arriva alla prima modifica del numero di deputati e senatori, la legge costituzionale 2/1963. Abbandonando il principio della variabilità del numero di membri delle due Camere, si decide di fissare la quota di deputati a 630 e quella di senatori a 315, per un totale di 945, a cui si aggiungono i senatori a vita.
Con la riforma del ’63 si decide anche di uniformare la durata del mandato delle due Camere, portandolo, per entrambe, a 5 anni, in modo da far coincidere gli appuntamenti elettorali non solo di fatto, come era accaduto nel ’53 e nel 58, con lo scioglimento anticipato del Senato (che, in realtà, sarebbe dovuto durare 6 anni).
Dopo la riforma del ’63, l’articolo 56 della Costituzione così si presenta: «La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto. Il numero dei deputati è di 630, dodici dei quali eletti nella circoscrizione Estero. Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno della elezione hanno compiuto i venticinque anni di età. La ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, si effettua dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo censimento generale della popolazione, per 618 e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti».
Il 57, invece, recita: «Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero. Il numero dei senatori elettivi è di 315, sei dei quali eletti nella circoscrizione Estero. Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sette; il Molise ne ha due, la Valle d’Aosta uno. La ripartizione dei seggi fra le Regioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, si effettua in proporzione alla popolazione delle Regioni, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti».
Diversi saranno i tentativi, specialmente a partire dagli anni ’80, dalla Commissione Bozzi alla riforma di Renzi, passando per le commissioni De Mita – Iotti e D’Alema e per la devolution berlusconiana e la bozza Violante. Tutti destinati al fallimento, tra proposte mai arrivate neanche in commissione e altre bocciate da referendum costituzionali.
Senza contare che il taglio dei parlamentari fu anche il decimo punto del Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli e della sua P2 (450 sarebbe stato il numero dei deputati e 250 quello dei senatori). Ma su questo tema torneremo più in là.