“Il prof è una roccia. Ce la farà”.
Lo avrò ripetuto centinaia di volte in questi giorni, fino a convincermene. E sono certa di non essere stata la sola a pensarlo.
Perché lo sport, la nostra pallavolo, insegna che non c’è mai avversario così forte da non poter essere battuto con la giusta dose di tenacia e grinta. Eppure questo virus infame è riuscito ad aver la meglio, a vincere la partita che hai dovuto combattere da solo, con il tifo di migliaia di persone a casa, ma senza l’aiuto della squadra.
Ed è la sconfitta più brutta di tutte, per tutti. La più difficile da accettare.
Come ci si può abituare all’idea che, entrando nella palestra della Rutigliano o della De Renzio, non ci sarai più tu ad accoglierci?
Che non potremo mai più vederti chino sul tavolo del segnapunti a compilare alla perfezione il referto?
Come potremo rinunciare al sorriso sempre stampato sul tuo volto, anche quando tutto andava storto?
“Eh, cia ma fa. Purtroppo…” esclamavi tutte le volte che dovevi riparare da te l’ennesimo faro rotto o l’ultimo danno in palestra. Sempre con una pazienza invidiabile, senza mai reclamare, arrabbiarti, spendere una parola cattiva contro qualcuno, anche quando ne avresti avuto tutte la ragioni del mondo.
Ma eri così. Pronto a farti carico del lavoro che gli altri ti buttavano addosso, a rimediare agli errori altrui, a combattere contro tutti, a mettere da parte persino te stesso e la tua amata famiglia, per il bene della Volley e dei ragazzi.
“Monsignor Magrassi diceva: “Fa più rumore un albero che cade che un’intera foresta che cresce”” ricordavi nelle interviste nella sede di via Garibaldi, che si trasformavano in lunghe chiacchierate, o durante le confidenze in spogliatoio prima di far ingresso in campo.
Il gruppo degli atleti cresciuti nella società, il “vivaio” come lo chiamavi tu, era più importante di tutto: delle sconfitte, delle retrocessioni e persino dell’ipotesi di fallimento della tua storica società, che ogni estate tornava a fare capolino. Se loro non potevano giocare, o avevano spiccato il volo verso altri lidi, tanto vale non iscriversi neanche al campionato. Scelte che non molti capivano o condividevano, a dir il vero.
Ma lo sport per te era questo. Non si gioca a pallavolo per far risultato, ma per crescere come persone più che come atleti. Porterò sempre nel cuore questo insegnamento, così come tutti i racconti e i discorsi spirituali, frutto della tua fede incrollabile.
Risuoneranno nella testa, insieme a quel “Alla prossima, Loreda’” con cui mi salutasti alla fine dell’ultima gara fatta insieme.
“Senza gli Schiraldi la partita non può cominciare”, dicevi sempre scherzando. Impareremo tutti a iniziare anche senza di te, presidente. Ci proveremo. Ma non sarà più lo stesso.