La Corte di Cassazione “annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Assise di Appello di Bari”. È la decisione presa il 29 ottobre scorso dalla Cassazione in merito alla sentenza che portava il 30enne bitontino Giuseppe Di Giacomantonio (fratellastro del boss Ciccio “Cipriano”) e i baresi – il 33enne Salvatore Ficarelli e il 38enne Giosuè Perrelli – in carcere, rispettivamente a due ergastoli e ad una pena di 30 anni di reclusione.
Partono proprio da questa notizia i festeggiamenti dell’altra sera in largo Caldarola (leggi qui: https://bit.ly/2POhtgC), che hanno poi visto il sequestro da parte della Polizia di Stato del cartone – grande circa un metro per un metro – della batteria dei fuochi d’artificio, sparata alle 19 circa. Di Giacomantonio è un uomo libero.
La sentenza di secondo grado della Corte d’Assise arrivò il 24 gennaio 2018, dopo la decisione emessa in primo grado dal GUP del Tribunale di Bari il 26 gennaio 2016 e gli arresti, fatti nel 2013 dai Carabinieri su disposizione della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari.
I FATTI. Stando alle indagini dei militari – coordinati dal Pm Renato Nitti della DDA -, il 20 luglio 2007 Di Giacomantonio, Ficarelli, Giuseppe Dellino (trovato poi morto nel 2013) e Giuseppe Ladisa (morto suicida in carcere nel 2009), avrebbero ucciso (su via Amendolagine, a Bitonto) a colpi di miraglietta il 29enne Vito Napoli (scarcerato appena tre mesi prima): in quell’occasione rimase ferito di striscio, ad una mano, anche il boss Domenico Conte, vero obiettivo dell’agguato. Per questo vengono accusati di omicidio e tentato omicidio, aggravati da premeditazione e finalismo di stampo mafioso (per conto del clan Strisciuglio). Dellino, che era alla guida dell’auto, comincia ad avere delle titubanze sulla possibilità di essere scoperti e viene considerato inaffidabile dal gruppo. Il giovane viene trasportato e rifugiato dai compagni prima in una casa tra Noicattaro e Triggiano, poi a Bitonto in un casolare tra le campagne di Palombaio. Qui verrà ucciso brutalmente, con un colpo alla testa, da Perrelli. Con l’aiuto di Di Giacomantonio occultano il cadavere del giovane che sarà ritrovato solo sei anni dopo, il 13 luglio 2013. Vengono per questo accusati anche di omicidio di Giuseppe Dellino, aggravato da premeditazione e finalismo di stampo mafioso, oltre alla soppressione di cadavere.
LE PROVE. “Un Carabiniere fuori servizio assistette alla sequenza che portò alla morte di Vito Napoli e identificò la vettura su cui viaggiavano gli aggressori”. Questo consentì immediatamente di indirizzare le indagini verso gli appartenenti al clan Stisciuglio del quartiere San Paolo di Bari, perché la Fiat Uno (guidata da Dellino) “era stata, in precedenza, oggetto di controlli”. Quando la macchina viene sequestrata dai militari, dopo poche ore dal delitto, era stata da poco ceduta in proprietà a Dellino e questo risultava irreperibile. Inoltre, “la vicenda fu confermata sia dalle verifiche tecniche nell’auto – dove furono trovate tracce di sparo” – che dalle dichiarazioni di Giacomo Valentino (“mandante dell’omicidio Napoli”) e Antonio Passaquindici – appartenenti allo stesso clan – e diventati collaboratori di giustizia. Valentino riferiva agli investigatori sia la pianificazione dell’omicidio – per motivi derivanti dallo spaccio di stupefacenti – che i componenti a bordo della Fiat Uno: “Ficarelli avrebbe materialmente esploso i colpi”. L’immediata individuazione dell’auto di Dellino, determinò, nei fatti, “il successivo omicidio di quest’ultimo” proprio perché cominciò a temere (“con estrema fragilità psicologica”) l’arresto e i compagni – compreso proprio Valentino -, temevano che se fosse stato rintracciato dalle Forze dell’Ordine “decidesse di collaborare”. Per questo, sempre per ordine di Valentino, Di Giacomantonio e Perrelli, si occuparono della sua eliminazione. Passaquindici, invece, affermava di essere venuto a conoscenza dell’omicidio di Napoli e di avere – su incarico di Valentino – “prestato assistenza agli esecutori” (il tutto “confermato dall’analisi dei tabulati telefonici e delle celle di aggancio”). Narrava, altresì, “anche per coinvolgimento diretto” di aver vissuto l’ansia per via di Dellino e di aver ricevuto l’incarico “dal Valentino di procedere alla sua eliminazione, con l’ausilio di Di Giacomantonio”. Tuttavia, “nel pomeriggio Passasquindici si sarebbe addormentato, tanto che l’azione fu portata a termine dal bitontino assieme a Perrelli”.
LA DECISIONE DEL GIUDICE IN PRIMO E SECONDO GRADO DI GIUDIZIO. Il Gup affermò che, da “decisioni giudiziarie relative all’esistenza e alla composizione del clan Strisciuglio, emergeva con certezza il ruolo svolto dai due dichiaranti” (Passaquindici e Valentino, ndr). Questi dati furono confermati anche dalle prove tecniche sull’auto di Dellino e dalla localizzazione sia di Dellino, che di Passaquindici a Noicattaro [Le specifiche obiezioni difensive sui fatti, sono esaminate nella decisione di primo grado, da pagina 72 a pagina 90]. Durante il secondo grado di giudizio, il giudice ritenne “esauriente e completa la motivazione addotta dal primo giudice ed alla stessa si riporta”.
COSA SI CONTESTA. La Cassazione, in definitiva, contesta un “eccessivo rinvio ricettizio alle argomentazioni espresse dal giudice di primo grado, senza alcuna visibile rielaborazione delle linee argomentative, pure a fronte delle critiche manifestate nei motivi di appello”. In sintesi, non ci sono state affermazioni inconfutabili o di dichiarazioni “prive di reale efficacia dimostrativa nel particolare caso della sentenza di secondo grado” che si limita, semplicemente, a confermare la prima decisione. Quindi, si legge, “non può il giudice di secondo grado limitarsi ad una generica affermazione di condivisione delle affermazioni già espresse dal primo giudice, pena la sostanziale elusione sia del generale obbligo di motivazione che delle ricadute sistematiche della garanzia del doppio grado di giurisdizione nel merito a struttura logica della motivazione di una sentenza di appello”. Anzi, “deve offrire alle parti processuali (nonché al giudice del grado successivo) la possibilità di comprendere perché le critiche mosse ai contenuti argomentativi della prima decisione siano state disattese” e, quindi, “manifestare l’avvenuta comprensione ed elaborazione della doglianza, con risposta effettiva ai contenuti della medesima il giudice di appello può di certo fare riferimento al contenuto di tali argomentazioni ma, in caso di conferma della responsabilità, ha il dovere di esprimere in modo compiuto e comprensibile le ragioni per cui le critiche dell’appellante sono state ritenute infondate”.