È stato presentato sabato, nel centro per l’Alzheimer Villa Giovanni XXIII, il volume “L’esperienza del limite. Vivere la vita, vivere la malattia”. Un libro sul ruolo della malattia e la vecchiaia e su come vivere ciò che, nonostante non lo vorremmo, fa inevitabilmente parte della vita. Un libro scritto a dodici mani da Chiara Cannito, Lizia Dagostino, Sabino Lafasciano, Grazia Depalo, Onofrio Pagone e Nicola Pice.
«Un vocabolario dell’umanità, della fragilità, in cui gli autori si sono fatti esploratori di zone d’ombra della nostra vita, di periferie esistenziali» come suggerisce il giornalista Valentino Losito, sottolineando come oggi siamo «elettronicamente e illusoriamente dotati di una sorta di onniscienza che ci dà l’illusione di sapere tutto, di poter superare ogni limite. Questo libro ci riporta in una benvenuta scomodità, ricordandoci che nella nostra vita il dolore e la malattia accadono. La malattia è una resa dei conti con noi stessi, perché ci mette con le spalle al muro. È un pettine straordinario che riporta in superficie tutti i nostri nodi».
Sulla stessa lunghezza d’onda Nicola Castro, direttore della fondazione Villa Giovanni XXIII, che ospitando l’evento, ricorda la volontà di rendere la struttura dedicata ai malati di Alzheimer, oltre che un centro di riferimento per le famiglie degli ammalati, un luogo dove fare cultura dell’assistenza, soprattutto su un male terribile come l’Alzheimer.
«Ricordo quando, da bambino, chiesi al nostro medico il significato dell’espressione dialettale “cadere malato”» spiega l’attore e conduttore televisivo Michele Mirabella: «Il medico mi spiegò che la malattia accade e non ci si deve vergognare, sentire da meno o in colpa. Oggi la vecchiaia, la malattia, la morte non sono più percepite come eventi del corso naturale della vita. La vecchiaia è percepita in modo negativo, mentre la giovinezza è diventata un mantello profano da indossare nel tempio dell’individualismo. Ma non possiamo continuare a gingillarci prendendoci cura solo di noi stessi e attendendo, poi, che gli altri si prendano cura di noi. Il vero amore è reciprocità».
Concetti espressi, del resto, anche dagli stessi autori, come Sabino Lafasciano che invita a riconciliarci con il nostro corpo e smetterla di interpretare la malattia con vergogna: «La cura è, al tempo stesso il segnale della nostra fragilità e la sua soluzione. È il senso della nostra esistenza, proprio perché siamo fragili. E lo scopriamo quando siamo vecchi».
«Siamo persone che si sono interrogate sul ruolo della malattia e sul senso del limite» riferisce il giornalista Onofrio Pagone, aggiungendo che il limite non è solo nel paziente, ma spesso anche nel familiare. Non tutti, infatti, è l’esempio di Pagone, sono capaci di essere genitori dei propri genitori, quando la salute di questi ultimi comincia a vacillare.
«Punti cruciali quando si ha a che fare con un malato, sono ascolto, formazione e informazione. Specialmente con un paziente affetto da una malattia l’Alzheimer, che mina le relazioni umane. La cura non può essere solo farmacologica e i familiari del malato, spesso si sentono abbandonati» evidenzia Grazia Depalo, insieme a Lizia Dagostino che spiega come la malattia di un parente, più che un tunnel, come spesso viene raffigurata, è l’inizio di una strada nuova, diversa: «L’invito è ad esserci per quel che siamo».