Metti
un libro. Un libro come (prete)sto. Apparecchi la tavola. Chiami gli amici (un
tempo anche nemici, ma tutto sommato meglio così) e ti ritrovi.
Così,
la rimpatriata è bella che pronta. Superati i convenevoli, si arriva al sodo.
E
si squaderna la propria vita, si ripercorrono le proprie personali battaglie:
le vittorie, le sconfitte. I sogni. Le illusioni.
È
quanto accaduto l’altra sera, a Bitonto, presso l’auditorium dei Santi Medici,
intitolato alla memoria di Anna ed Emanuele Degennaro.
Il
libro in presentazione (su cui, specificatamente, abbiamo già parlato in altro pezzo, ieri) è
dedicato a “Mons. Aurelio Marena. Vescovo (1950-1978)” e porta la firma di Francesco
Savino (versione laica da studioso del più noto don Ciccio), Vincenzo Robles,
Stefano Milillo e Franco Nacci, resa su carta di un convegno tenutosi un anno
fa sul presule napoletano.
Abbiamo
ascoltato tanto, forse troppo (ma perché a Bitonto non si capisce mai che
l’attenzione dell’uditorio ha un limite?).
Celebrando
Marena, figlio della chiesa di Pio XII, l’altra sera si è così riunito tutto il gotha della cultura cattolico-progressista bitontina, che poi, a conti fatti, è
l’unica cultura presente (autorizzata?) in ambito cattolico cittadino.
Gli
è che Bitonto, tramite la lettura di Giovanni Modugno e anche di Giuseppe
Caiati, è stata da sempre, nei piani alti della cultura, legata al
cattolicesimo “aperturista” e al socialismo salveminiano.
La
sintesi è stata questa: ecco poi il ventennio socialista, social-comunista e di
centrosinistra tra i ‘70 e i ’90.
Un
cattolico che puntasse i piedi, tosto e senza paura, sulla scia di Domenico
Giuliotti, Giovanni Papini, Romano Amerio, Attilio Mordini, Cornelio Fabro, ma
se si vuole anche di un Romano Guardini, a Bitonto è sempre mancato.
Tra
i preti e tra i laici. Colpa sua, si dirà. Ma anche, forse, di un mondo che –persino
se litigava o faceva finta di litigare- in realtà su più pilastri all’unanimità
si riconosceva.
Bitonto
tra le prime città italiane, nei primi anni ’60, a sperimentare il centrosinistra
con Domenico Saracino (ottimo sindaco, tra l’altro, onesto, soprattutto: rara avis).
Naturale,
consequenziale, con questi riferimenti culturali.
E
anche Modugno, però, che invece proprio con Salvemini intraprese sulle pagine
di Belfagor (1947) un’animata e fraterna discussione sul suo fiero dirsi
“cattolico” (ma basterebbe quello di “Religione e vita” stesso), è stato sempre
letto in questa dimensione ristretta, ideologicamente socialistica, declinato
quasi a profeta del cosiddetto “cattocomunismo” (termine che non amiamo). Definizione
pubblicistica e volgare che decisamente non gli si attaglia.
Anche
perché una cosa, serissima, sono stati i comunisti cattolici alla Franco
Rodano, alla Felice Balbo, alla Adriano Ossicini, cui Augusto del Noce poteva
opporre tutto a livello logico-filosofico (e spesso a ragione), ma di cui non
potevi non riconoscere la serietà e l’impegno.
Altra
cosa è stata la sinistra cattolica dossettiana, ancorata alla “scelta
religiosa” del suo guru, ma poi in realtà vischiosamente immischiata nella pretta
gestione del potere, come biografia di Romano Prodi insegna.
Tornando
a noi, rieccola questa rimpatriata.
L’abbiam
guardata, sia chiaro, con umana simpatia per tutti i protagonisti. Prendi Marco
Vacca, cui non puoi non voler bene con l’affetto del figlio (o del nipote, fate
voi). Prendi, ancora, Valentino Losito, “presidente dell’Ordine dei
Giornalisti” quanto si vuole, ma poi ascoltatore paziente e amichevole delle
diuturne lamentele nostre.
Un
interrogativo va però posto direttamente a lui e a don Ciccio Savino, altro
simpaticone.
Due anni fa, proprio di questi tempi, chi ha memoria sa che ve ne
dicevate di cotte e di crude.
Fu una polemica forte, personale, acrimoniosa.
E
dovetti addirittura intervenire a mo’ di paciere.
Figurarsi!
Io che di solito faccio il piromane e accendo i fuochi.
E
così come aveste a suo tempo il coraggio della dimensione aperta della discordia,
della pubblica sfida in pubblica piazza, fateci sapere anche su cosa vi siete
ritrovati e rimessi a collaborare, no?
La
pace è bellissima e ne siamo felici. Ma non è “parresia” dire anche perché si fa pace? Ci furono parole
fortissime, pesantissime, ma che avreste potuto fumare il calumet, lo lasciai
intravedere in una lettera aperta a Valentino già proprio in quei giorni, sulle
pagine di Bitontolive, quando egli criticò la collaborazione tra Comune e
santuario per la festa dei Santi Medici del 2012.
Testuale:
“Se reputi inopportuna la collaborazione, vorrà dire che la riterrai
naturaliter perversa. In nome del “non tacerò”, hai però il dovere di
dircene il perché. Sono un inquieto e voglio scomodarmi anche io. Tanto è vero
che spesso, nel mio piccolo, sostengo tesi cultural-politiche da sempre
all’indice in questa città, quando non di fatto inesistenti o poco incisive (e
ricordo a tutti che tu e l’Innominato potete anche litigare finché volete, ma
avete le stesse letture e io, che magari ora passerò per il difensore di
qualcuno, resto culturalmente alternativo a te e a lui, con ovvia amicizia per
entrambi)”.
Invitavo,
insomma, Losito a dirci il perché profondo e recondito di tutto quell’astio
contro l’alleanza, pare ora rotta per sempre, causa fisco, tra “Trono e Altare”
(parole del Losito di allora).
Allo
stesso modo, si potrebbe fare oggi con le ragioni del ritrovato feeling.
Passiamo
ora a due spunti da altrettanti interventi.
Sia
chiara di nuovo una cosa: qui le persone per noi sono sacre.
Per
la precisione, è stata qualche parola ascoltata dalla voce di don Antonio
Mattia e don Peppino Ricchiuto che ci ha un po’ messo in crisi.
Vorremmo,
ma proprio non riusciamo a tacere il disappunto sorto in noi dopo aver udito,
da parte di quest’ultimo, all’interno di una relazione che parlava diffusamente
di Marena, delle parole sul Concilio Vaticano II che gridano vendetta rispetto
ai fini studi teologici dello stesso don Peppino.
E
il Concilio è stato il vero convitato di pietra di tutta la serata.
In
verità, l’accordo “mitico” su di esso, cioè su un Concilio che nelle fonti e
nei documenti non c’è, se non nell’omonimo “spirito del”, amato a suo tempo
dalla scuola bolognese di Giuseppe Alberigo e oggi riproposto da Sua Santità in
persona, dopo la parentesi ratzingeriana della celebre “ermeneutica della
continuità” (anche se, in verità, proprio Francesco ha espressamente citato le
stesse parole di Benedetto in un evento a ricordo del Concilio di Trento e poi del
Vaticano II stesso).
Attorno
a tutto ciò ci si è, dunque, beatamente ritrovati.
Il
Concilio che concilia (e riconcilia).
Ma
ecco don Peppino: “Il Concilio segna una
rottura col passato della perfecta societas. Quando si deve cambiare, si
cambia. Cosa si fa con un vestito vecchio? Lo si butta e se ne fa un altro.
Questo è stato il Concilio per la chiesa“. Rispetto a questo modo così
superficiale di parlare, roba da rasentare il ridicolo, capirete, c’è poco da
dire. Si possono concepire queste cose forse al bar (e don Peppino non ci
sembra nemmeno un tipo da bar, a dirla tutta), non certo in un consesso che si
voleva quanto meno cultural-teologico.
La
chiesa e il depositum fidei, come don Peppino sa meglio di noi, non sono un
abito, che si mette e si toglie a proprio piacimento: una similitudine che non
fatichiamo a definire obbrobriosa.
Evidentemente,
il sacerdote non ha letto Antonio Gramsci: “(…) perciò, nonostante tutte le declamazioni della pseudosociologia
democratica di qualche socialista da loggia o da sinagoga, la Chiesa cattolica
è societas perfecta, assai più e meglio che lo Stato nazionale massonico e
borghese. Il potere temporale dei papi, a torto vituperato dai semianalfabeti
del Libero Pensiero, è stato un modus vivendi storicamente necessario e
inevitabile, l’unica forma che potesse, nei secoli passati, garantire la
libertà della Chiesa” (Quaderni del carcere).
Ma
abbiamo ascoltato anche un altro storico sacerdote bitontino, don Antonio
Mattia (di fronte alla cui esperienza di prossimità cristiana e umana noi
c’inchiniamo), per anni responsabile della parrocchia più ideologica bitontina
(laddove il progressismo di un don Vincenzo Cozzella, invece, pur assai
similare, guardava più al biblismo), dire che “fino al Concilio il papa si faceva chiamare dolce Cristo in terra, ma
in realtà, prima di Roncalli, dei poveri alla Chiesa non interessava nulla”.
Passi
l’ultimo degli anticlericali di stampo ottocentesco, ma quando a parlare così è
un prete la cosa non può non colpire.
Eppure
il suo intervento, come quello di Marco Vacca infarcito di bei ricordi personali
dedicati a Marena –anzi, talvolta anche amari per la solitudine che circondava
il vescovo, lasciato spesso solo anche dal clero-, era stato assai
coinvolgente.
Gli
ci siamo serenamente avvicinati alla fine e, dopo avergli ricordato che “dolce
Cristo in terra” era espressione di Caterina da Siena, dedicata, in più, al
papa avignonese Gregorio XI, gli abbiamo chiesto il perché di quelle parole
così forti, ma lui, alla sua maniera comunque mite: “Ma tu non hai vissuto
quell’epoca, che ne sai?”.
Ora,
a parte che molti hanno vissuto quell’epoca e non tutti la pensavano-pensano
come lui, a parte anche il fatto che uno le cose le può studiare e approfondire
comunque, preferiamo stendere un velo pietoso su chi gli era al fianco, che per
giunta credevamo amico e che invece ci ha quasi allontanato con fare
infastidito e sufficiente, senza nemmeno provare a contraddire nel merito il
sottoscritto, asserendo: “Chiacchiere, don Antonio parla chiaro e basta”.
Idem
dicasi quando noi abbiamo umilmente rammentato al caro don Antonio che un
sacerdote cattolico non può ignorare la vita di un santo, papa Sarto, san Pio
X, espressione diretta del mondo contadino veneto (mica i bergamaschi valgono
di più dei trevigiani, adesso?), morto senza un centesimo, che lasciò un testamento
in cui nulla aveva da dichiarare.
Nessuno
trascura le tristemente note “colpe della Chiesa”, i ritardi e gli errori, ma
come si possono buttare, da parte di un ministro di quella stessa Chiesa di
Cristo, duemila anni di storia così? Parole che offendono il credente che sa e
che semmai eccitano esclusivamente l’ignaro e sprovveduto plaudente.
E
che dire di papa Pacelli?
Francesco
De Gregori, non il musico di qualche parrocchia sedevacantista, ha cantato Pio
XII che va a sporcare di rosso-sangue il suo vestito a San Lorenzo a Roma dopo
i bombardamenti, unico a non fuggire da Roma sotto assedio, papa amico e
salvatore di migliaia di ebrei, papa che aveva già in mente il Concilio stesso,
papa che Hitler voleva rapire, eppure per un prete bitontino la
“vera” Chiesa comincia solo nel 1958, quando il papa muore (dipartita
per la quale, del resto, padre Benedetto Calati pregava ardentemente, oltre
che, si capisce, “cristianamente”).
E
nemmeno da allora ad oggi, perché poi, chiaramente, devi togliere Giovanni
Paolo II, Ratzinger, l’ultimo Paolo VI.
Siamo
su “Scherzi a parte”, vero?