Qual è l’infinito di un’opera d’arte? Fin dove può slanciarsi qualcosa che sgorga da dentro? Ma, poi, possiamo noi, caduchi osservatori, pretendere di dare una definizione ad un quid che proprio contermini non ha e non vuole avere? Mi posi questo ingenuo interrogativo il giorno in cui – accompagnato da quel poeta schietto e appassionato che è Damiano Bove – mi si schiuse dinanzi agli occhi il mondo variopinto di Francesco Cannone. Nel suo appartamento/atelier di via Verdi imperava una allegra anarchia, le pareti erano sommerse di quadri e tutto era meraviglioso. Esile e forte come un giunco, occhi chiari e chioma lunga, l’autore illustrava con un sorriso serafico i suoi “figli”, facendone come un buon padre la personale classifica. Pittura astratta, la sua, ma quanto effettivamente svincolata dall’essere? Non è forse dentro il mistero della vita più di ogni altra forma espressiva la pennellata che traduce una idea pura in colore slanciato verso una onirica avventura? Ed in effetti colpiva nelle sue creazioni – un arguto rotolio di parole pregna di significato, qui, una scala aggrappata ad un cielo d’inchiostro lì, aquiloni perduti nell’azzurro e riccioli di non so che nel bianco… – la meta ultima del suo cromatico poetare: il cuore dell’uomo. Con i suoi sogni, le sue inquietudini, le sue ubbie, le sue gioie, le sue mattie: tutto. E non è un caso che Cannone esprima il meglio di sé su superfici grandi grandi come il cosmo illimitato o come una volta celeste che non ha mai fine. Ed è lì che Francesco rincantuccia sé stesso, magari per rincontrarsi ed uscirne rinnovato al termine del dedalo di ricordi, in cui ancora sorride la sua personale consulente artistica, l’amata madre. Così, lui si ritrova, riprende cavalletto, tubi e pennelli e ricomincia a sognare a colori…