DI MARIELLA DE SANTIS ROBBINS
Ci vuole talento. Perderti e stare dentro un’epidemia. Sono passati quasi 15 mesi.
I tuoi libri sul comodino sono come la sera prima che andassi a fare un esame in ospedale
senza più tornare a casa. Gli armadi, le scarpe, i vestiti, pure. In questi giorni che sono sempre
a casa ci tengo a stare in ordine e allora ho preso un paio delle tue felpe. Belle. Ci sto bene
dentro. Faccio la doccia un giorno nel mio bagno e uno nel tuo. La ginnastica nel tuo studio. Ho
tolto un quadro e ne ho messi tre più piccoli. Avevo promesso ad Annarita che le avrei
regalato quello che ho tolto ma mi sono accorta mentre lo incartavo che dietro c’è una dedica
e un ringraziamento a te dell’artista. Quindi forse dovrei dirle che non posso più regalarle
l’opera. Mi sento in imbarazzo. Dovrei anche aprire il tuo pc e mettermi a raccogliere i tuoi
saggi rimasti in sospeso per pubblicarli. Poi dovrei lavare le tende. E dovrei anche riprendere
a lavorare su Und Tabu ma ho paura. Di cosa non lo so. No, non del virus. Peraltro credo di
averlo avuto a gennaio quando però si pensava che non ci riguardasse. Che botta che ho preso,
mio caro. Prima una leggera congiuntivite, poi mal di gola poi una tosse che temevo mi
spaccasse le costole. La nostra dottoressa era preoccupatissima. A volte dico meno male che
non stai vivendo questi momenti. Poi mi dico: cretina. Lui avrebbe voluto vivere anche questo.
La vita non ti spaventava e ti piaceva. Faccio sempre un po’ fatica a capire quelli che dicono
quanto gli piace vivere. Mah, non so per me è solo un dato di fatto e ‘sto fatto bisogna farlo
bene, rispettandolo e migliorandolo. Ho cambiato lavoro il giorno prima della serrata. Sono
andata nel nuovo ufficio solo un giorno, ho preso dei compiti da fare a casa e via. Non ho
capito se era un buono o cattivo presagio. Da quando sei morto tutto è confuso, ciò che è bene
e si rivelerà male e il contrario. Chi sa dire e chi non sa ma dice lo stesso. Come in questi
giorni col virus. Mi sono data una regola, radiogiornale alle 6.45, 13.45 e 18.45. Qualche
giornale on line in giornata. Cancello senza leggere la maggior parte delle cose che mi arrivano
su wapp. E arrivano 2,3,4,10, 20 volte le stesse. Perché tu conosci troppe persone, mi dice mia
sorella. Pure se non voglio, alla fine devo tornare a me. Con questa colpa per ogni cosa, ma
quella è una vecchia conoscenza. A me le giornate volano. Mi ricordo di quando tuo fratello
malato diceva: già solo lavarsi occupa tutta la mattina. Mi pare succeda così anche a me. Però
lavoro anche eh? Solo che lo faccio in orari svariati. Quelli che sento produttivi. I primi giorni
sono caduta in uno stato catatonico. Come se gli ultimi pesantissimi 5 anni mi si fossero stesi
addosso col loro carico di piombo che mi si è conformato intorno al cuore, allo stomaco e
organi meno nobili. Tutto parla di te. Ho sempre i piedi freddi. Ieri sono uscita da letto alle tre
di pomeriggio. Cercavo di convincermi che era qualcosa che mi potevo permettere. Non so
quanto mi sia autoconvinta. Assolta mai, ovvio. Ho recuperato passando l’aspirapolvere e
innaffiando le piante. Ho scongelato un brodo che mi aveva dato Roberta qualche mese fa.
Quanto ci piaceva mangiare bene. Una volta l’anno ci concedevamo un ristorante stellato,
ascoltavamo ogni sapore e ne parlavamo. Era bello. Ora mangiare è nutrirsi. Beh, devo dire
che stando a casa ho iniziato anche a fare qualcosa che non sia al vapore niente di che eh?
Però ho addirittura comperato 2 uova per fare un plumcake. Isola di Miyajima, pieni di salute
e felicità siamo al mercatino locale. Un anno prima del disastro. Ti fermi davanti ad una
bancarella di suppellettili, prendi un cucchiaio di legno d’acero con un buco a forma di cuore
al centro e mi dici: voglio comprartelo così quando cucini mi pensi. Io rido, ti dico che non credevo saresti arrivato ai cuoricini, sottolineo che nel cassetto in cucina ne abbiamo già una
decina, poi ti ricordo che quando preparo da mangiare tu mi sei sempre attorno che
chiacchieri, ascolti la radio, versi del vino in due calici. Accettai il regalo, divertita e intenerita.
Ora prendo in mano il cucchiaio d’acero col buco a forma di cuore al centro e dico: ma come lo
sapevi? Come sapevi in un giorno di sole e felicità che quel cucchiaio avrebbe spodestato dalle
loro funzioni tutti gli altri? Che sarebbe diventata la tua voce e il tuo sguardo nella luce di
Miyajima in giorni in cui dentro me il sole è sempre basso? Mi vergono di cadere nel mio
dolore. Penso ai medici, ai paramedici, agli spaventati, a chi ha perso il lavoro, ai figli ai padri.
No, non è questione di fare una classifica del dolore è che ti trovi a pensare: se i genitori di
Giulio ancora respirano, ancora cercano verità, vuol dire che da qualche parte ci sta la cassetta
degli attrezzi che spetta ai salvati. Lo so ci sono anche i sommersi e non sempre sono quelli
che muoiono. Si levano i ricordi, nubi rade per chi non ama più pensare al passato. Tranne a
quello con te che però non riesce a diventare passato. No, dicevo, i ricordi. Mia madre mi
mandava spesso a trovare la signora De Fazio le portavo qualcosa di caldo in inverno e fresco
d’estate. Viveva a letto. Malattia misteriosa. Mi raccontava di sua madre morta di spagnola nel
1918 e lei rimase orfana a 16 anni. Mi ricordo i pensieri che non mi azzardavo a condividere
con nessuno per paura di sentirmi dire per l’ennesima volta che ero strana. Pensavo che
Spagnola era un nome poco serio per una malattia. E che morire per una malattia col nome
ridicolo non mi sarebbe piaciuto. Oggi Covid19 fa impressione, sembra un nome che potrebbe
stare in un film da the day after. Invece è vera e di oggi 1 aprile 2020. Virus vagabondo e
democratico. E anche spudorato, mostra le vergogne di ogni paese, le parti molli e maleolenti.
America ragazzo di 17 anni muore perché rifiutato dall’ospedale in quanto senza
assicurazione. Africa centinaia di persone usano la stessa latrina e non hanno acqua corrente.
Tu sostenevi un programma di costruzione di latrine igieniche per le popolazioni che
altrimenti scaricavano nel fiume da cui attingevano l’acqua. Ti prometto che appena chiudo
con tutte queste beghe burocratiche tornerò a sostenere tutte le associazioni che supportavi.
Io non sapevo nulla. Nulla. Ti piacevano i segreti. Ora il mio pensiero va a chi ha perso nella
stessa famiglia una, due, tre persone e dovrà confrontarsi con la burocrazia italiana, coi
documenti impossibili, con l’agenzia delle entrate che fa errori in tempo reale e non
restituisce i soldi in tempo reale. E penso che anche loro non avranno il tempo d cadere o
forse no, forse loro potranno cadere subito come è finalmente capitato a me dopo 15 mesi. I
primi giorni solo il senso tiranno del dovere mi faceva lavorare le ore necessarie per portare a
termine dei compiti e poi catatonia assoluta. Mi sono spaventata. Mi guardavo dall’esterno e
mi chiedevo chi fosse quella tizia seduta in poltrona avvolta in coperta che magari guardava
su Netflix le più impensate delle serie TV per ore ore ore. Mi scopro morbosamente attratta da
alcune ambientate in comunità chassidiche ultra ortodosse. Non credo sia solo perché distanti
da me. Potrei guardare documentari sui popoli incontattati, allora. Invece Shitsel, Unorthodox,
One of us. Credo sia per quel mio tormento di capire come si intreccia e nasconde l’intrico di
bene e male, diritto e scelta, libertà e soggezione. Come la normalità riesca a custodire e
talvolta nascondere l’eccesso. Il tema della mia vita, insomma. Una parte di me diceva è
l’effetto marmotta, poi passa. Un’altra era terrorizzata che potessi rimanere sempre così.
Quando ero piccola se facevo una smorfia a mia sorella, mia madre diceva: ora passa l’angelo
dice amen e rimani così tutta la vita. Non ci credevo davvero ma un po’ sì… (Fine Prima Parte)