Classe 1943. Quinto di cinque fratelli, porta un cognome che ha segnato profondamente la storia della seconda metà del ‘900 in America Latina e in tutto il mondo, diventando un simbolo della lotta contro l’imperialismo, apprezzato a sinistra, ma spesso anche a destra. Un cognome che, durante il regime militare argentino, lo ha portato in carcere per otto anni, a cause delle idee politiche che ha continuato a tramandare.
Parliamo di Juan Martin Guevara, fratello minore del ben più noto Ernesto. Da 50 anni porta avanti l’eredità di suo fratello Ernesto, raccontato anche in un libro dal titolo “Il Che, mio fratello”, scritto con il giornalista francese Armelle Vincent, corrispondente di “Le Figaro” da Los Angeles, e pubblicato in Italia da Giunti, in occasione del 50esimo anniversario della morte, avvenuta il 9 ottobre del 1967, per mano dell’esercito boliviano. Un libro che raccoglie ricordi, testimonianze fotografiche e documenti legati ai momenti di vita vissuti con Ernesto, alla militanza politica che li ha legati l’un l’altro e che, poi, Juan Martin ha portato aventi, anche durante i duri anni della dittatura argentina. Ricordi belli, come quelli legati alla vita in famiglia, ma anche brutti, legati, ad esempio, al giorno in cui ricevette la notizia della morte.
Abbiamo avuto modo di incontrarlo qualche mese fa, in occasione della sua ultima visita in Puglia. In quell’occasione abbiamo avuto modo di parlare non solo del suo ricordo dell’Ernesto politico, rivoluzionario, ma anche dell’Ernesto fratello. Un fratello perso a 25 anni, ma di cui è ancora viva la memoria: «Una cosa è ricordare il Che, il rivoluzionario. Una cosa è ricordare il fratello. I miei ricordi di Ernesto risalgono all’epoca in cui eravamo piccoli e lui ancora era in Argentina. Memorie di vita con la nostra famiglia, che ho voluto raccontare nel libro, con l’obiettivo di umanizzarlo, di far capire chi fosse davvero, nella sua sfera più privata, da dove veniva. Ho voluto raccontare il suo rapporto con la nostra famiglia». Ha, dunque, voluto raccontare, a mezzo secolo dalla sua scomparsa, gli aspetti meno conosciuti di un personaggio che tutti conoscono, di cui hanno parlato libri e film, spesso celebrato con statue e monumenti, in tanti Paesi del mondo: «Ernesto prima di essere il Che (nomignolo dato dai cubani, per il suo uso frequente della locuzione “che”, usata tra gli argentini per richiamare l’attenzione dell’interlocutore, ndr) era un uomo normale. O, meglio, non molto normale considerando che era la mia famiglia a non esserlo. Non era la classica famiglia argentina tipica dell’epoca. Non era quel tipo di famiglia che si ferma e vive in un posto per sempre. Andarono a vivere lontano da Buenos Aires, a circa 1500 km in mezzo alla foresta Misionera (la proprietà che acquistarono fu chiamata la Misionera). Non c’era nulla, era foresta pura. Dopo due o tre anni vissero a Buenos Aires, poi Cordoba e poi di nuovo Buenos Aires. Mio padre iniziava sempre un’attività che poi non terminava, per iniziarne un’altra e poi un’altra ancora. E anche mia madre era una persona molto particolare per l’epoca, perché in quegli anni in Argentina non era ben visto che una donna fumasse, guidasse l’auto, andasse a cavallo, avesse i capelli corti e fosse femminista».
E in quella famiglia, che aveva attraversato e continuava ad attraversare un periodo molto particolare della storia argentina, la politica non era mai mancata: «Si parlava molto di politica in casa. Si discuteva e si leggeva tanto, di letteratura come di poesia e politica. Credo che Ernesto si sia sempre interessato di politica, perché già da quando eravamo molto piccoli ascoltavamo cose che avevano a che fare con la politica in casa. Sempre. E non ascoltavamo una sola visione. La politica era stata sempre presente, sin da quando eravamo piccoli». E alla domanda su cosa pensasse del percorso intrapreso dal fratello e sulla sua lotta politica, Juan Martin risponde: «Io sono fratello di sangue di Ernesto e compagno di ideali del Che, sebbene per me siano un’unica cosa, che non posso separare. Tutta la famiglia, dai miei fratelli a mia madre e mio padre, l’ha appoggiato e siamo stati d’accordo con ciò che Ernesto ha detto e fatto. Chi più, chi meno, chi in un modo, chi nell’altro, ma tutti l’abbiamo appoggiato. Per quanto riguarda me, io ero militante già a quindici anni. Militai in un partito che si chiamava “Partito rivoluzionario dei lavoratori”, che appoggiava la rivoluzione cubana, la lotta armata, la liberazione dei popoli».
Juan Martin, quindi, ripercorre anche i giorni in cui ebbe notizia della morte di Ernesto: «In realtà non avemmo la notizia dell’arresto, perché ci hanno sempre detto che fosse morto in guerra. Questa fu la prima delle bugie raccontate dall’esercito boliviano, che volle far credere che mio fratello fosse morto in battaglia, quando in realtà fu fatto prigioniero ed assassinato il giorno successivo. Ricevemmo la notizia dai giornali, che riportavano di un combattente argentino cubano, morto in combattimento. Io, in quel periodo, lavoravo in un’azienda lattiero-casearia e, ricordo, alle primissime ore del mattino vidi sui giornali la foto che fece il giro del mondo, del suo cadavere in un lavatoio, nel luogo dove si depositavano i cadaveri. Cosi iniziammo a discutere tra noi se quel cadavere fosse o non fosse il suo, se la foto fosse truccata o no, se fosse vera o no. Eravamo mio padre e i miei fratelli perché mia madre era già morta e mia sorella Annamaria viveva al nord molti km di distanza. Io, dall’inizio quando vidi la foto all’alba, ero sicuro di sì, che fosse lui. Decidemmo che qualcuno dovesse andare in Bolivia a riconoscere il corpo e questo sarebbe stato mio fratello Roberto. Ma, arrivato lì, gli venne detto da un colonnello che non c’era nessun corpo e gli venne detto di andare a La Paz, per parlare con il capo dell’esercito. Anche lì la risposta fu che non c’era il corpo, che era stato già sepolto. Poi, quando tornò a Buenos Aires, avemmo la conferma che quel corpo fosse realmente di Ernesto».
La figura di Ernesto è ricordata specialmente per il suo ruolo nella rivoluzione cubana, che portò alla caduta del dittatore Fulgencio Batista e alla nascita del governo socialista guidato da Fidel Castro. «Credo che la rivoluzione cubana fu importante per l’America latina e continua a esserlo. Non solo per Cuba, ma per tutto il mondo, per vari aspetti. In primis perché dimostrò che un piccolo paese può trionfare su grandi potenze come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti provarono con tutti i mezzi a sconfiggere il popolo cubano ma non ci riuscirono. Fidel fu un capo fondamentale per il trionfo della rivoluzione». «La visione del Che – aggiunge – aveva come obiettivo la liberazione dell’America. Era convinto del pieno appoggio di Urss e Cina. Nessuna delle due potenze appoggiava pienamente la sua visione. A Cuba si discuteva molto, in proposito, perché da un lato avevano la necessità della dipendenza economica dall’Unione Sovietica, ma, dall’altro, non erano d’accordo con essa su molte cose, a partire dalla politica internazionale».
In tanti anni, Juan Martin è stato anche impegnato a studiare il pensiero di Ernesto Guevara. Un pensiero testimoniato in almeno 4300 pagine di suoi scritti, redatti sia per essere letti da terzi, sia per restare semplici annotazioni personali, appunti, spunti di riflessione: «Il pensiero del Che è legato al marxismo e al leninismo. Si definiva marxista e leninista, nonostante facesse delle critiche a Marx e a Lenin». «Non si definiva guevarista solo per una questione di modestia» ironizza, sottolineando che, in lui, era presente già nel ‘65 la coscienza che l’Unione sovietica stesse retrocedendo e ritornando al capitalismo perché non era stata capace di generare, nel popolo, una coscienza necessaria per portare avanti la rivoluzione: «Le riforme strutturali non sono sufficienti se non si cambia la testa della gente. Questo è un lavoro che lui ha fatto prima, durante e dopo il trionfo della rivoluzione. Mai smettere di lavorare sulla coscienza. Quando lui parla dell’uomo nuovo, parla di questo: dell’uomo cosciente, l’uomo che difende quello che sta facendo però con coscienza, non solo per difendere un livello di salario o una posizione economica». «Tutto questo lo aveva scritto già nel ‘65» ribadisce, citando alcuni scritti intitolati “Appunti Critici sull’economia politica dell’Unione Sovietica”, in cui il Che evidenziava che gli errori commessi fossero tali da non permettere soluzione. Tutto questo molto prima che, nell’89, crollasse l’Unione Sovietica.
«Per molti di noi, quindi, la caduta dell’Urss non fu una grande sorpresa. Come non lo fu quando il comunismo fu facilmente piegato in Polonia, Cecoslovacchia, Medioriente. Evidentemente non furono rivoluzioni profonde» spiega, facendo un salto indietro e passando in rassegna le varie rivoluzioni socialiste nel mondo: «Però c’è qualcosa che bisogna sottolineare. Prima della rivoluzione bolscevica del ‘17, la Russia era il paese più arretrato dell’Europa. Dopo la Rivoluzione, la Russia diventa una potenza mondiale, che è stata capace di mandare nello spazio lo Sputnik. E, oggigiorno, sta ancora dimostrando di essere una potenza, nonostante non ci sia più il comunismo. La Cina dipendeva dalla Gran Bretagna. Era una colonia immensa, ma comunque una colonia. Con la rivoluzione di Mao si libera della dipendenza non solo della Gran Bretagna, ma di chiunque. Oggi non ci sono dubbi che sia una potenza capitalista e che sia un impero. Ma se non avessero avuto la rivoluzione non lo sarebbe. Lo stesso è successo a Cuba, in tono minore. Senza la rivoluzione sarebbe stata ancora la Cuba degli anni ’50. Ogni paese che è riuscito a liberarsi di qualcosa, ha scritto una storia. In Cina, non guardano certo al passato. Come anche in Vietnam, che è stato capace di cacciare gli Stati Uniti d’America e ora lavora con loro. Molte aziende del Nord America sono in Vietnam, anche perché oggi è meno legato alla Cina, a causa di conflitti geopolitici legati al petrolio. Non sarebbe quello che è oggi senza la rivoluzione. Molti paesi oggi non sono più comunisti, ma comunque non sarebbero quello che sono oggi, senza la rivoluzione».
Guevara, quindi, ricostruendo il contesto in cui si inserì la rivoluzione cubana, quello dell’America Latina, che «viveva sempre in conflitto», e quello di Cuba, che fu quasi al centro, nel ’63, di un conflitto mondiale nucleare, al centro della guerra tra due potenze, spiega che anche all’interno di Cuba c’erano conflitti, dibattiti, discussioni, non necessariamente violenti: «Senza conflitto, senza diversità di vedute non c’è progresso. Non è mai tutto piatto, uguale di volta in volta. Anche nella rivoluzione cubana si discusse, molte posizioni divergevano. Ma l’eredità principale che hanno lasciato il Che e Fidel Castro è che, anche in un paese piccolo e arretrato, come Cuba si possono fare cambiamenti. Come? Con volontà, unità, decisione, organizzazione e con una politica chiara, che la gente capisca, appoggi e segua. Se ha potuto Cuba perché non possono l’Argentina, il Brasile, il Venezuela, il Messico? Paesi molto più grandi, sviluppati con industrie, lavoratori, partiti politici più grandi. Il Che in un articolo affrontò l’argomento, chiedendosi se, in America Latina, Cuba fosse un’eccezione o un cammino. Ernesto affermava che fosse un cammino. Ma non tutti i partiti comunisti dell’America Latina erano d’accordo con la sua linea. In realtà Fidel ed Ernesto sono sempre stati della stessa idea, convinti della necessità della liberazione degli altri paesi latinoamericani. Non era solamente solidarietà, ma necessità che si proseguisse la liberazione dell’America Latina».
Secondo Juan Martin, la figura di suo fratello è stata ed è così forte da essere anche sopravvissuta ai tentativi del grande nemico statunitense di far calare su di lui una cappa di oblio: «Inizialmente tentarono di far sì che non fosse conosciuto, facendo in modo che non ci fosse un corpo. Ma non ci riuscirono perché il popolo, le persone lo vedevano come un modo di sentire e vedere le cose, non solo come una persona fisica. Il Che serve ai popoli, forse è per questo che non riuscirono ad annullare la sua figura. Quindi, non riuscendo a far sparire la figura del Che, hanno tentato di alterare la sua figura, per farlo apparire come qualcos’altro, deformarlo e neutralizzarlo. Sfruttandolo, ad esempio, a livello commerciale». Ed è proprio il commercio basato sul mito di Che Guevara, che è stato spesso oggetto di condanna e di critica da parte di Juan Martin. Lo sottolinea anche tra le sue pagine, ripudiando il «vergognoso commercio che è cresciuto intorno al Che» e le «leggende al limite del misticismo». A suo dire, tutto ciò ha solo l’obiettivo di fare del Che un mito: «È questo mito che mi propongo di combattere, restituendo a mio fratello un volto umano».
«Ma il Che, nonostante tutto, continua ad esistere» ribadisce, utilizzando, come esempio di come suo fratello continua a vivere, uno dei tanti incontri fatti in giro per il mondo, presentando il suo libro, tradotto in undici lingue, tra cui turco, arabo, coreano e non solo nelle lingue più conosciute. L’incontro con un coreano, non del Nord comunista, ma del Sud capitalista, felice di ascoltare la mia testimonianza: «Un’altra testimonianza di come il Che sia ancora vivo è data dal fatto che la figura del Che sia apparsa, talvolta, anche nella protesta dei gilet gialli, nonostante non c’entrasse in alcun modo». E spesso, anche all’interno del grande nemico, negli Stati Uniti d’America, dove la figura di Fidel Castro è odiata, è invece stimata e rispettata quella di Ernesto Che Guevara, come conferma Juan Martin che, negli Usa ha anche rilasciato un’intervista per la Cnn.