Una donna vede una ragazzina colpita da uno scooter e urla disperata perché è come se avesse visto sua figlia sbattuta giù per terra dal motorino.
La pozza di sangue di una studentessa, che viene investita mentre sta rincasando con gli amici.
Un ladro d’auto fermato dai carabinieri, dopo un inseguimento rocambolesco fra le strade della città. Spari nell’aria addolorata…
Istantanee di dolore.
Dicono accada anche altrove.
Noi vorremmo che qui accadesse sempre meno.
Ma c’è gente che ritiene la cronaca nera sia “piccola”. E non considera tale piuttosto la malavita (in senso troppo lato, qui, purtroppo) che la genera.
Mah…
Niente da fare, ci manca qualcosa.
Oggi, rifiato un po’ e mi concedo una piccola storia inventata, che però nasce da suggestioni che Bitonto mi offre.
Chiedo venia sin d’ora, lettori cari, se non vi troverete la notizia (eh già, ce ne sono di fissati in busca d’essa, cui il sottoscritto è inviso), ma solo una metafora di quel che non c’è più. O, forse, c’è ancora, ma chissà dove si nasconde….
M. S.
Luigi
era un barbone, ma se avesse avuto una lametta, una sola, l’avrebbe buttata giù
quella folta peluria ingiallita da mille sigarette vicino le labbra e per il resto grigia che lo faceva più vecchio di quel che era.
Era
un “homeless”, “senza casa” per dirla in italiano, eppure quel cartone, che gli
dava tepore perfino nelle serate più gelide, gli sembrava meno ipocrita di
tanti sfarzosi palazzi. Eppoi ci si era affezionato da quando vi aveva letto
sopra la scritta “fragile”, pareva l’avessero messa lì apposta per lui.
Era
lercio e povero, questo sì, non aveva niente nelle tasche per giunta forate dei
suoi eterni pantaloni. Camminava dall’alba al tramonto, frugando disperatamente
in ogni cassonetto. Spesso, lo si vedeva arrampicarsi su quei contenitori grigi
e tristi e rovistarvi dentro con studiata calma.
Viveva
delle scorie altrui, tutto quello che gli altri scartavano per lui era pane
quotidiano. Dicevano i preti, quelli “bravi” che lo conoscevano, che “viveva ai
margini”. Lui era convinto che fossero gli altri a stare sui margini, sulla
soglia della vera vita, dell’essenza della vita, senza assaporarla.
Il più delle volte, la sua quieta e pur
incessante ricerca si concludeva con un bel nulla di fatto e, come i cani
randagi, finiva per sfamarsi con quel che gli davano le buone persone, non
sappiamo se per pietà sincera o per falsa carità.
Luigi
era il facile bersaglio dei motteggi dei bambini. Vedendolo dondolare per le
strade polverose, perduto in chissà quali pensieri, pensavano fosse ubriaco.
In
realtà, si smarriva semplicemente nei suoi magnifici soliloqui. Le parole gli
si affastellavano, inseguivano, accoppiavano come in una festa vorticosa e
bellissima da andarci col vestito buono. Nessuno sapeva di questo turbinoso
galà perché nessuno gli parlava. E dire che non aveva mai preso parte ad una
festa in vita sua…
Aveva
sempre nella mano sinistra una busta di plastica che sperava di riempire a fine
giornata.
Nell’altra
mano, stringeva un che di invisibile, un mistero. Il mistero.
Nella
destra, infatti, le dita erano sempre serrate e pareva che nel pugno custodisse
qualcosa. Niente di che, ci mancherebbe. E non avrebbe acceso la curiosità dei
bimbi che lo sfottevano, se essi non si fossero accorti che qualcosa di strano
capitava quando quella mano chiusa sfiorava qualcosa. I bambini giuravano
d’aver visto rinascere i petali morti di una rosa gettata accanto ad un
cassonetto. Una sera, sempre loro, avevano mirato stupefatti una lucciola
riprendere a palpitare, dopo che s’era accasciata sulla fredda terra. Un’altra
volta, avevano visto sorridere dolcemente un bimbo cerebroleso, che mai aveva
sorriso prima. Un’altra volta ancora, avevano notato un gattino, esanime pancia
all’aria, rizzarsi d’un subito e scattare via.
Tutti
questi fatti strambi avevano una cosa in comune: da quelle parti era passato
Luigi e dalla mano destra aveva fatto scivolare via, piano piano, delle gocce
rosse. Di porpora.
I
bambini, meravigliati, pensavano fosse vernice, di quelle vernici che si
vendono a carnevale per fare scherzi puerili e crudeli.
Un
giorno, rannicchiato nel suo cartone, Luigi non resse dinanzi alla luce
malinconica della luna che inondava la notte. Sentì qualcosa dentro: quel lume
celestiale gli ricordava un amore perduto e non ce la fece. Restò così, disteso
in un silenzio di tomba, agli angoli degli occhi due vecchie perle di fissa
ebetudine.
Ai
ragazzini, che il pomeriggio seguente accorsero a giocare sotto quel ponte, non
sembrò vero di poter finalmente aprire quelle dita ormai irrigidite.
Con
fatica schiusero quell’ostinata mano, loro volevano capire che scherzo nascondesse.
Volevano svelare il mistero.
Che
delusione, quando ci riuscirono. Zeppo di minuscole cicatrici, vi trovarono un
cuore.
Il
cuore di Luigi il barbone.