La
frase che raccoglie il senso di una intensa mattinata arriva dal
direttore del daBITONTOMario Sicolo. “Dire
Causio vuol dire affermarsi in un’Italia lacerata e segnata da tante
divisioni come quella degli anni ’70”.
Già,
il professore non ha tutti i torti. Raccontare Franco Causio, detto
il “Barone”, nato a Lecce nel 1949, significa tanta roba. Un
ragazzo meridionale che si fa strada – e che strada – nel Nord e
nella Torino calcistica, dominata dalla Fiat. Venticinque anni di
calcio, dal 1964 al 1988, tra serie C e Nazionale. Tra Lecce,
Sanbenedettese, Juventus (due tranche, tra il 1966-1968 e tra il 1970
e il 1981, con oltre 400 partite disputate), Palermo, Reggina,
Udinese, Inter, Triestina. Una bacheca che fa luccicare sei scudetti,
una coppa Uefa e una coppa Italia.
Il
mondiale vinto in Spagna nel 1982, e quella partita a scopone con
Zoff, Bearzot e l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini
nel volo di ritorno in patria.
Un
calcio diverso da quello di oggi, dove anche con un paio di quaderni
da usare per realizzare le porte si poteva organizzare una ridente
sgambata tra amici. E, soprattutto, un calciatore differente dai suoi
colleghi contemporanei.
Tutto
è raccolto in “Vincere
è l’unica cosa che conta”, libro
scritto a quattro mani con il giornalista Italo Cucci, e che Franco
Causio ha presentato ieri agli studenti dell’European language
school, “intervistato” da Antonio Saracino della libreria
“Raffaello” e da Domenico Nacci, assessore comunale allo Sport
fino ad agosto.
“Il
libro – spiega
l’ex calciatore – non
nasce per fare storia, ma per capire come si è formato il piccolo
terrone diventato Barone. A 16 anni ho lasciato Lecce, e a quei tempi
era davvero difficile lasciare casa così giovani. E l’ho fatto prima
per San Benedetto e poi per Torino, dove sono arrivato alla Juventus
“scoperto” da Luciano Moggi, che all’epoca era dipendente delle
Ferrovie dello Stato”.
La
Juventus, l’amore calcistico della sua vita. Per anni a stretto
contatto con Gianni Agnelli e Giampiero Boniperti. “Quando
mi sono accasato alla Juventus – racconta
– c’era
Helmut Haller (trequartista
tedesco, in maglia bianconera dal 1969 al 1973, ndr),
non uno qualunque. Ma questo non mi ha impedito di ritagliarmi il mio
spazio. Lo stile Juve? Il comportamento, il rispetto verso gli altri
che ci costringeva ad andare a far visita ai vari club bianconeri
sparsi qua e là”.
E
la storica partita a scopone? “E’
stato il presidente a volerla – perché anche lui amava quel gioco.
Dopo la finale contro la Germania, ha chiesto che tornassimo a casa
con il suo aereo, e l’occasione è stata propizia e indimenticabile”.
Anche
il passaggio all’Inter – correva l’anno 1984 – merita di essere
raccontato. “Quell’estate
mi scadeva il contratto con l’Udinese, e mi cercavano diverse
squadre. L’Inter e il suo presidente, Ernesto Pellegrini, sono stati
i primi a cercarmi e ci accordammo subito. Quando Boniperti ha saputo
la notizia, mi ha telefonato chiedendomi di desistere. Cosa che
ovviamente non ho fatto”. In
casacca nerazzurra resterà soltanto una stagione, totalizzando 24
presenze ma nessuna marcatura.
Dopo
l’addio al calcio, nel 1989, ci si aspettava che il “Barone”
avrebbe insegnato come si giocasse a pallone seduto su una panchina.
Così non è ancora stato. “Potrei
farlo perché ho il patentino, ma non c’è mai stata concreta
possibilità. Fare l’allenatore, però, è più difficile che essere
calciatore. Volevo anche essere un maestro per i giovani, con la
comprensione di scoprire piedi buoni (a
proposito: è stato Causio, da capo osservatore juventino, a scoprire
che Alessandro Del Piero era un talento), ma
il destino non ha voluto”.
Non
per questo, però, non è in grado di analizzare con lucidità il
calcio che ci appassiona oggi. “E’
cambiato – dice
– perché
c’è stata la legge Bosman, perché non c’è più attaccamento alla
maglia, non ci sono le strutture sportive, il settore giovanile e i
suoi allenatori e dirigenti”.
C’è
però ancora la Juventus, “che
continua a vincere perché ha fame e una colonna vertebrale composta
da italiani”.