L’altra sera, ero in redazione e dalla finestra semichiusa filtrava discreta l’eco di un sereno fermento.
Poi, dopo alcuni pezzi coinvolgenti, ho riconosciuto con nitidezza: “Tu dimmi quando quando/dove sono le tue mani ed il tuo naso/verso un giorno disperato/ed io ho sete/ho sete ancora…“, le note (Pino Daniele le scrisse per Massimo Troisi, siamo nel novero dei geni, quelli molto umani e un poco malinconici, unici insomma) si confondevano dolenti con l’aria pungente della sera ottobrina.
Ho chiuso e sono sceso a vedere, a sentire, ad ascoltare. Giovani divenuti uomini stavano salutando con la musica più amata Gianni Castellano.
Un palco alto il giusto per metterci gli strumenti e per stare tra chi voleva abbracciare gli artisti.
Chiunque si alternasse su quegli assi ricordava quell’amico volato via troppo presto.
L’amicizia è la declinazione più pura dell’amore.
Ha dentro qualcosa di eterno che vince persino il fatidico muro d’ombra.
Poco più in là, sotto un arco del nostro suadente centro storico “tum, tum, tum” – la chiamano “techno” e non ci sono più dita che picchiettano su tasti, bacchette da far vorticare e corde da pizzicare – e le pietre non più chianche ricoperte da un tappeto mesto di bicchieri di plastica frantumati.
Le teste dei ragazzi si muovevano a quel ritmo ripetitivo e martellante come se annuissero al nulla.
Torno difilato in piazza Cavour.
C’è Coraçon espinado di Santana ed immagino il cuore di chi ha avuto caro Gianni quaggiù – e sono tanti, tantissimi – proprio così, avvolto da una invisibile ma dolorosa corona di spine.
Poi, persino il rock di Ligabue è sembrato dolce.
E, a mezzanotte in punto – anche se l’orologio di Porta Baresana segnava ignaro ancora le sette meno venti… -, il concerto dei ricordi s’è piano spento, con i bimbi saliti sul palco pieni d’emozione.
Certo, tutte quelle note s’erano avventurate verso l’alto cielo stellato, però Gianni era (ed è) anche in ogni palpito del cuore di chi, l’altra sera, ha cantato, ballato e pianto…