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Home » Il Primo Maggio e i tumulti del ’47 a Bitonto: latifondisti nel mirino e un prete ferito. La testimonianza di Emanuele Coviello

Il Primo Maggio e i tumulti del ’47 a Bitonto: latifondisti nel mirino e un prete ferito. La testimonianza di Emanuele Coviello

In occasione della Festa del Lavoro abbiamo ricordato, insieme al reduce, le sommosse dei braccianti agricoli che si tennero nel dopoguerra

Michele Cotugno by Michele Cotugno
1 Maggio 2018
in Cronaca
Il Primo Maggio e i tumulti del ’47 a Bitonto: latifondisti nel mirino e un prete ferito. La testimonianza di Emanuele Coviello
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Si celebra oggi la Giornata dei Lavoratori o Festa del Lavoro, la ricorrenza dedicata alle lotte per i diritti dei lavoratori. Lotte che hanno interessato tutto il territorio nazionale. Anche il Mezzogiorno, dove l’agricoltura ricopriva un ruolo centrale nell’economia e nella società, prima che il passaggio ad un’economia più industriale svuotasse le campagne.

Anche Bitonto che, nel 1947, fu interessata, insieme a tante altre zone della Puglia e non solo, da tumulti e proteste.

La guerra era finita da due anni, ma c’era un altro conflitto da combattere. Quello contro la miseria. Gli strati più poveri della popolazione, composti da braccianti agricoli, chiedevano migliori condizioni di vita e di lavoro a proprietari terrieri troppo spesso sordi e allo stato italiano. Chiedevano di poter sfamare e proprie famiglie. Chiedevano dignità e diritti sul lavoro, come la riduzione dell’orario a 8 ore. Lottavano contro la disoccupazione e chiedevano quel lavoro a cui la giornata di oggi è dedicata.

Spesso anche dando luogo a violente rivolte, come abbiamo già raccontato a novembre scorso, ricordando le vicende del 19-20 novembre ’47, in cui i rivoltosi giunsero a sparare contro le forze dell’ordine.

Testimone di quegli eventi fu Emanuele Coviello. Lo abbiamo conosciuto quando, in occasione di Memento, a febbraio, ha raccontato la sua tragica esperienza nei campi di prigionia tedeschi.

Tornò nella sua Bitonto il 15 ottobre del ’45. Tornò in una terra in cui «si moriva di fame», come del resto già prima della guerra, come dice parlando del padre che «il ’35 andò in Africa a lavorare. Andò sei mesi per portare a casa 500 lire, con cui comprammo un piccolo orticello in via Megra che, poi, vendemmo di nuovo per comprare la farina negli spacci, perché il pane non c’era. Queste erano le condizioni di vita in Italia. Non come oggi che il pane lo andiamo a buttare».

«Ricordo che una mattina, poco dopo il mio ritorno, mi alzai presto e uscii di casa per chiedere di lavorare in campagna per raccogliere le olive. Portai anche mio fratello. Chiesi 80 lire, ma dopo altri lavoratori mi riferirono di prendere 350 lire. E così chiesi anche io la stessa quota, per poter portare il pane a casa. E mi fu concessa. Ecco come stavamo a quei tempi. Stavamo male» ricorda Coviello: «Ci davano quattro soldi. Ci mettevano in condizioni di miseria. Era necessario ribellarsi. Eravamo anche andati in guerra per difendere la patria dei ricchi, non quella dei poveri».

Le rivendicazioni dei braccianti erano raccolte da comunisti, socialisti e dai sindacati che chiedevano migliori condizioni di vita per loro, il rispetto dei contratti e il riconoscimento del limite di otto ore al giorno. In quei giorni, in tutto il barese, era stato indetto sciopero ad oltranza.

«Io e mio padre eravamo iscritti al Partito Comunista, come tutti i lavoratori dell’epoca. Il 90 percento di loro era iscritto. Sono stato iscritto per tre o quattro anni» aggiunge, ricordando la visita di Togliatti, ’48: «Non volevano neanche farmi lavorare, proprio perché ero comunista. Però quando ci hanno mandati a morire in guerra a nessuno interessavano le nostre idee politiche».

«Il 19 novembre ’47 alcuni iniziarono a sparare, per protesta contro gli accordi tra le parti che si stavano prendendo al Comune. Fu l’inizio di tutto. Fu assaltata la sede della Democrazia cristiana e furono accesi fuochi» aggiunge ancora.

E, infatti, come del resto abbiamo già ricordato, nonostante gli appelli alla calma del segretario socialista Angelo Custode Masciale, i manifestanti si divisero in più gruppi, iniziando a lanciare invettive contro i padroni, i latifondisti, e contro le forze politiche a loro vicine, le “sedi della reazione agraria” come la DC, la cui sede in piazza Cavour è assaltata. Gli arredi interni della sezione bitontina della Democrazia Cristiana vennero ammucchiati sulla piazza e incendiati. Vennero assaltati anche il Circolo Unione in piazza Margherita di Savoia (l’odierna piazza Aldo Moro) e la sede del Movimento Dell’Uomo Qualunque, ubicata in via de Ilderis, che fu colpita da bombe. Un gruppo di manifestanti occupò anche la società telefonica, allo scopo di ostacolare le comunicazioni tra il commissariato di Polizia cittadino e quello di Bari. Altri arrivarono a Porta La Maya, sparando colpi di fucile contro la Polizia giunta da Bari dopo che le comunicazioni furono interrotte.

«Ricordo che dalla Porta del Carmine si sparava su via Modugno. Le forze dell’ordine arrivarono dunque dalla via per Giovinazzo, visto che da Bari non potevano entrare a causa dei manifestanti che sparavano».

E infatti, la situazione va avanti dal 19 al 20 novembre, quando a sedare la rivolta intervennero le camionette dei Carabinieri, posizionando mitragliatrici lungo corso Vittorio Emanuele II.

«Io rimasi in corso Vittorio Emanuele II, solo di guardia alla sezione del partito, e mio padre era a casa, nel suo letto. Non partecipò per niente alla sommossa. Ciò nonostante fu arrestato con l’accusa di avervi preso parte» spiega oggi il reduce, affermando che a fare il nome del genitore fu invece un esponente del Movimento dell’Uomo Qualunque, ex membro del Partito Fascista bitontino, con cui precedentemente c’erano stati dei dissidi legati alla retribuzione del lavoro in campagna durante il periodo della raccolta delle olive: «Furono loro, gli ex fascisti, poi andati nell’Uomo Qualunque, a fare i nomi di quelli da arrestare come responsabili delle sommosse. Ben pochi, invece, tra i veri responsabili, furono presi».

Due giorni durarono le sommosse, conferma Coviello: «Non ci furono feriti, a parte il sacerdote don Pasquale Dileo, che andava a celebrare messa al Carmine. Fu sparato da un delinquente, un tale Michele Rizzi, che fece sette anni di carcere per tentato omicidio».

Spesso, infatti, la Chiesa era accusata di essere più vicina ai latifondisti che ai poveri contadini.

Queste manifestazioni spesso si trasformavano in rivolte, anche violente, che trovavano impreparati governo e forze dell’ordine che, non riuscendo a gestire la situazione, intervenivano talvolta con le armi. Succedeva in tutta Italia. Anche in altre parti della Puglia si registrarono disordini che portarono anche vittime sia tra i dimostranti che tra le forze dell’ordine.

Nonostante il giudizio che, oggi, potremmo dare di proteste così violente, queste furono lotte per il lavoro che, miravano a porre al centro dell’attenzione pubblica i problemi dei braccianti, che vivevano in difficili condizioni di vita sociale e di estrema miseria. Grazie a queste rivolte per la prima volta gli ultimi iniziavano a fare politica, a prospettare riforme che migliorassero le condizioni li contadini e operai. Temi oggi ancora attuali, purtroppo.

Sono passati tanti anni, decenni, da allora, ma c’è ancora chi viene sfruttato, per pochi spiccioli nelle campagne, nelle aziende. E ricordare come abbiamo acquisito, nel tempo, quei diritti a cui oggi non facciamo neanche più caso è d’obbligo per difenderli e per combattere le diseguaglianze ancora esistenti nella nostra società e nella nostra economia.

 

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