Del libro di Paolo Cucchiarelli, giornalista investigativo de l’Ansa, non è tanto significativo il titolo (“Morte di un presidente”), ma il sottotitolo: “Quello che né lo Stato né le Br hanno mai raccontato sulla prigionia e assassinio di Aldo Moro”. Che è, quindi, una sorte di intenzione letteraria.
Già, perché il volume del cronista si inserisce in quella vasta letteratura che ritiene che la verità processuale (sul caso Moro, si badi bene, abbiamo ben cinque processi celebrati dalla Corte d’Assise di Roma, e abbiamo nome e cognomi degli esecutori materiali dello statista di Maglie) non corrisponda affatto a quella effettiva.
E, proprio spinto da quella verità (“è l’unico modo per avere giustizia” è la sua idea), entra come pochi nei meandri e nei cunicoli più stretti e angusti di una delle vicende più tristi della Repubblica italiana. E lo fa non con semplici supposizioni e ipotesi – per carità, ci sono anche quelle – ma studiando e ristudiando foto, perizie, carte, documenti, e tutto quel materiale misteriosamente scomparso nelle aule dei Tribunali. E, soprattutto, facendo parlare gli oggetti: la sabbia (non poca ritrovata sui vestiti dello statista il giorno del ritrovamento), il bitume, la coperta (non perforata dai proiettili, perché?), il suo corpo, i proiettili, i 12 colpi che ha ricevuto per essere fatto fuori, ma solo quattro rinvenuti nel bagagliaio.
Chiara, allora, la conclusione: le Brigate rosse hanno mentito più e più volte, dietro e durante il rapimento del presidente della Democrazia cristiana c’è stato un chiaro disegno e complotto internazionale, lo Stato ha fatto valere la ragione di Stato.
Il libro di Cucchiarelli è stato presentato venerdì a Bitonto, in un evento organizzato dall’European language school di Fiorella Carbone e dalla Libreria del teatro, in occasione proprio dei 40 anni dai sanguinosi fatti di via Mario Fani. A moderare l’evento l’avvocato Giuseppe Angiuli, secondo cui “colpendo Moro, è iniziato l’inesorabile declino politico dell’Italia, e infatti non siamo più il Paese autorevole dell’epoca. La pubblicazione di Cucchiarelli ha un livello di approfondimento e meticolosità diverso dagli altri, ed è uno strumento indispensabile perché si basa su dati indiziari certi e oggettivi spesso tralasciati per 40 anni”.
E Cucchiarelli, fin dalle prime battute, fa emergere alcuni scenari rivoluzionari. Che si troveranno, ancora più approfonditi, in un altro libro, in uscita il 12 aprile, dal titolo “L’ultima notte di Aldo Moro. Dove, come, quando, da chi e perché fu ucciso il presidente della Dc”.
E allora: gli interessi internazionali erano fortissimi. Strutture di intelligence parallele americane non riconosciute che ha agito in vari punti del mondo e anche nel caso Moro. Si chiama Secret Team, che faceva affari in droga, armi e petrolio, oltre a guidare l’addestramento dei terroristi nel mondo.
E questa società occulta è stata presente anche il 16 marzo, il dì in cui tutto ha avuto inizio e sono stati uccisi gli uomini della scorta.
Tant’è vero che “i brigatisti – Cucchiarelli dixit – hanno sparato i loro colpi da sinistra, mentre da destra sono arrivati una 50ina di colpi da parte di un’altra persona. Non vestita come loro, ma con un lungo cappotto e ha un chiaro addestramento militare. Lo dimostrano i proiettili trovati da quel lato della strada, e dal fatto che Oreste Leonardi (caposcorta di Moro, ndr) esce dalla macchina perché vede qualcosa di strano, salvo poi essere spinto in auto e infatti ha una posizione anomala nell’autovettura”.
E, dopo via Fani, Aldo Moro non è assolutamente portato in via Montalcini, come hanno sempre affermato i brigatisti (“Moro soffriva di claustrofobia, e non poteva resistere in una prigione come quella”, è scritto nel libro), ma in via Massimi n°91, a 200 metri dal luogo dell’agguato, in un appartamento di appartenenza dello Ior, la Banca vaticana, e in un complesso dove abitava anche Prospero Gallinari, uno dei componenti del commando di fuoco di quella mattina. E tutti, forze dell’ordine in primis, sapevano perfettamente.
Ma le prigioni di Moro – è sempre la ricostruzione del giornalista – sono state più di una: sicuramente anche a Palo Laziale, in via Gradoli, e in un immobile di proprietà della Guardia di finanza a Fregene.
Anche sulla uccisione, la mattina del 9 maggio, le Br avrebbero mentito e lo Stato avallato questa verità. Moro, infatti, non sarebbe stato ucciso nel bagagliaio della Renault 4, perché qui ci sono soltanto quattro colpi, la coperta non è bucata, e le ferite sono tutte presenti sul lato sinistro del corpo anziché sul destro. Ecco che, allora, quasi sicuramente sarebbe stato sparato in macchina – lo dimostra il sangue presente e il resto dei bossoli rinvenuti – con otto colpi, e poi spostato nel bagagliaio.
“Moro, quella mattina – è la conclusione rivoluzionaria di Cucchiarelli – doveva essere liberato, e infatti era abbastanza sereno. La trattativa per liberarlo, infatti, portata avanti direttamente dal Vaticano e in primis da papa Paolo VI era praticamente cosa fatta, ed era a conoscenza di tutti. Poi, però, è saltato tutto, perché i giochi erano troppo alti, e perché Moro sapeva troppe cose. E fu Andreotti a fare il pollice contrario affinché tutto si bloccasse”.