Un cittadino, da sempre stato attivo, ci racconta una storia che ha troppi lati tristi. Leggiamo la missiva dettagliata non meno che amareggiata.
“Credo che tutti noi abbiamo più volte sentito, per lo meno di sfuggita, l’invito delle istituzioni a essere cittadini attivi, parte attiva del cambiamento, a combattere le ingiustizie e l’omertà, anche in forma anonima, qualora gli eventi abbiano un certo peso e, come protagonisti, taluni personaggi -spesso con nomi folkloristici- della malavita locale.
Bene. Quello che le istituzioni non dicono è il dopo. O come questa forma di “cittadinanza attiva” (per carità, alla base di ogni cambio di mentalità e, più che un’eccezione, deve essere una normalità) viene gestita, nel rapporto tra istituzioni e autorità competenti.
Di cosa accade quando una segnalazione viene effettuata.
Della tutela di chi denuncia invece, non se ne sa nulla poi. Di chi è illuminato, toccato da uno slancio di giustizia o forse stanco di vedere la propria terra ridotta a brandelli da un manipolo di sopraffattori irresponsabili, più o meno criminali, più o meno malavitosi, ma comunque arroganti e prepotenti, siano essi dottori, avvocati, muratori, tubisti, nullafacenti, disoccupati o impiegati (o alle volte, gli stessi uomini delle istituzioni)… nulla.
Non entro nel merito di cosa accade dopo una segnalazione, non è il mio campo e sinceramente, non mi interessa. Spesso sono i titoloni dei giornali a farne uno “SCOOP”, a porre sul petto di politici e burocrati medaglie di materiali più o meno pregiati.
Ma la coscienza è qualcosa che non può avere una forma e un materiale. La coscienza -soprattutto di chi, per ruolo sociale, professionale o politico- accoglie una denuncia (di cui il denunciante, per svariati motivi, vuole rimanere anonimo), a volte, sembra non esistere. Anzi, soffre di uno smisurato ego e di una voglia di pubblicità che può, in buona o cattiva fede, far precipitare gli eventi.
So che però, in questo senso, “il gioco alla carlona” regna sovrano.
La superficialità con cui vengono diffuse le informazioni circa il malfatto, spesso documentazioni dal cittadino inviate per denunciare un grosso e palese illecito -a un membro del consiglio comunale ad esempio- regna imperante.
Le autorità poi, specie le locali, che “conoscono il soggetto”, se ne lavano le mani, e anzi: quasi scomodate a intervenire (è il loro lavoro, una scelta), cercano di esternare queste informazioni e generalità, come per discolparsi di fronte al criminale.
Immagino il pensiero quando vengono sollecitate a intervenire: “maduuu, questo è? Mo ci dobbiamo andare a compromettere!”.
Quasi se quell’uniforme e quell’autorità che ricoprono, dinanzi a certi soggetti, vada a farsi benedire e, come spesso detto, il potere malavitoso sia l’unica istituzione riconosciuta. In barba a quanti per la malavita, per combatterla, hanno sacrificato le loro vite.
Ma solo di fronte a certi soggetti.
Quasi come seccate da questo ruolo che tecnicamente dovrebbe essere il loro lavoro cosa fanno? Anziché indagare, avviare un monitoraggio, raccogliere prove decisamente più sensate e compromettenti, in via bonaria, si presentano da chi ha commesso l’illecito con la segnalazione ricevuta, integralmente. Compresi i dati sensibili.
Non chiedendosi se in quelle foto, in quei messaggi, sono evidenti le fonti da cui provengono, ergo, CHI HA AVUTO UNO SLANCIO DI CORAGGIO, E DENUNCIARE.
Specie per chi magari ha 12 occhi e 40 orecchie.
Ecco allora che inizia il massacro, il calvario.
All’improvviso, quando pensavi di aver fatto una cosa giusta, quando pensavi che ai tuoi figli potevi lasciare un esempio di chi all’ingiustizia risponde con la giustizia, con la tanto sbandierata LEGALITÀ, ti senti osservato. Senti il vocio, il mormorare di loschi figuri al tuo passaggio… inizi a notare presenze strane e la gente che ti evita.
Finché una sera, mentre sei in casa a cena, senti suonare alla porta. E quei loschi figuri, che solo a vederli alimentano il ribrezzo ma anche la paura, che fino a quel momento avevi visto sempre più presenti e sempre più vicini, te li ritrovi lì. Dietro la porta. Allora, come uno spoiler di un film, capisci già tutto.
Il “ti DOBBIAMO parlare” è un codice formale molto chiaro, univoco.
Ti induce a inventare una scusa alla famiglia, che improvvisamente piomba nel silenzio. Una moglie a cui dici “non ti preoccupare, torno subito” e voltarti.
Prendere la giacca e il coraggio e lasciarti scortare da loro. No ascensore. Solo scale.
Si sale in auto.
In quegli interminabili secondi ti scorre tutto avanti come un film. Pensi a cosa dire. Pensi a “cosa cazzo ho fatto”.
Ti senti sporco.
Umiliato.
Solo.
A tratti pensi anche al peggio.
in quegli interminabili secondi, pensi che hai fatto solo quello che era giusto fare. E acquisisci la certezza che forse, chi aveva IL DOVERE di proteggerti, non l’ha fatto. Anzi… quasi come se fosse stato un gioco tra bambini, non si è accorto che con la sua superficialità, ti ha lasciato in una gabbia di leoni affamati. Sei catapultato di colpo in un mondo parallelo, con la LORO GIUSTIZIA, del loro punto di vista e col loro modo di fare. Che senti non appartenerti.
Poche centinaia di metri, cerco di respirare tranquillamente. Tolgo la mascherina, fondamentalmente perché ho bisogno di ossigeno. Praticamente perché è come entrare a Napoli vecchia sul motorino col casco.
Ho avuto la fortuna di conoscere certi rituali. E in auto nessuno porta la mascherina.
Covid o no, è un segno che devo dare pure io. Per avviare un discorso basato su codici gestuali molto precisi. Per cercare almeno di dare qualche segnale che attesti la mia autorevolezza. Perché so dove sto andando e soprattutto da chi.
Li guardo ad uno ad uno. Personaggi mai visti.
Almeno sono cortesi. Si fermano a un bar. Ma non a uno qualunque. Un bar dove ci sono altri personaggi usciti dalla serie televisiva “Gomorra”.
Esterno Bar: tra tutti questi astanti, molti li riconosco, il più sano avrà almeno 40 reati alle spalle. Ovviamente, quasi tutti impuniti.
Ti guardano schifato.
E tu ti senti ancora peggio.
Non sai nulla. Non devi sapere nulla. Fatichi a tenere il cervello in tensione e pronto a non sbagliare.
Non sai cosa potrebbe succederti. E ti maledici da solo.
Ma un po’ d’esperienza in questo campo serve. E ti mostri sicuro, tranquillo, rilassato.
Al bancone il personaggio, protagonista della segnalazione che avevi fatto.
Sono passate solo poche ore dalla segnalazione inviata all’autorità. Questi già sanno tutto.
Mi presento. Tendo la mano. Lui me la dà, ma quasi come a un segno di disprezzo, se la disinfetta poco dopo. Sono tutti senza mascherina, quindi l’igienizzazione di sicuro non è per paura del covid.
So perfettamente che questi qui, come in un rituale, non lasciano nessun gesto al caso.
Alle nostre spalle, a semicerchio, quasi a chiudere ogni via di fuga, i quattro che mi hanno prelevato.
“Dimmi” gli dico deciso.
Inizia in un soliloquio che parte dall’origine, quasi a voler certificare l’autorità e la ritualità che si ha nella gestione del malaffare nella zona e che nessuno si deve permettere di…
Conosce bene la modalità degli interrogatori. Mi dice tutti i dettagli della segnalazione. Inevitabilmente sa che sono stato io.
Ma, forse perché siamo in periodo di santi Medici, vuole perdonarmi. Vuole solo che dica che sia stato io. E che chieda scusa. Ovviamente, davanti a tutti.
Ripenso a quante volte ho camminato con la testa alta per i vicoli del mio centro storico e ho letto quelle frasi che sono state appese, che dovrebbero educare alla legalità.
Penso al mio passato. Ai diversi ruoli che ho ricoperto. Anche professionalmente, nella lotta -quella vera, fatta per le strade- alla criminalità.
A quante volte mi sono fatto promotore di azioni sociali e sì, veramente, antimafia.
Penso, ma faccio finta di ascoltare. Ma sinceramente, per orgoglio e per forza interiore, non riesco ad ascoltare le sue ostentazioni di forza e potere marcio. Vedo solo il luccichio, classico, di una croce di oro al petto. E il famoso tatuaggio di Padre Pio sull’avanbraccio. Grande classico. Di chi per farsi perdonare le colpe che sceglie di commettere, deve sporcarsi non solo la coscienza, ma anche il corpo.
Lo guardo in faccia per tutto il tempo, mentre lui dopo un po’ inizia a schivare lo sguardo. Ripeto, conosco certe dinamiche. Quando finisce di parlare, esordisco con un netto: “hai finito?”
Purtroppo adduco un generale punto di vista, e si finisce a parlare di altro.
Dentro sono molto arrabbiato. Tantissimo. Sento il fuoco nelle vene. La sensazione del tradimento è quanto di più schifoso conosca.
Il problema non sono lui e il suo sporco modo di fare. Per 50 anni ha vissuto nel marcio e non devo essere io a fargli cambiare idea e spiegargli il buon senso.
Sono molto arrabbiato. In primis con me stesso: sento che questo, dopo 50 anni, non è il posto dove vorrei continuare a vivere. Ma purtroppo ho seminato tutto qui, sento che a mollare tutto farei solo un grosso danno alla mia famiglia, ai miei figli. Sradicherei una tranquillità che ho faticato a costruire.
Ma purtroppo questo malessere equivale a 1000 coltellate al cuore, all’essere ancora vivo dopo essere stato pestato da una mandria di bisonti, ed essere stato vigile mentre loro ti investivano. Cosciente.
Ecco, ritorna quella brutta parola. Coscienza: sento che ho agito con coscienza.
Ma ho agito male, perché, quasi come una grossa sconfitta esemplare, se ho scelto di vivere qui (giusto o sbagliato, non voglio analizzare questo ora), dovevo accettare le regole. Sono troppo grande e troppo esperto per capire che certe dinamiche non si cambiano. Sicuramente non con i proclami elettorali e lo sbandierare “LA LEGALITÀ”. Parola, concetto di vita, stuprato. Lasciato pronunciare alle più porche bocche, a quelle più sporche, più insozzate, più fetenti di melma, colluse con il malaffare.
E che quando qualcuno predica “legalità”, se lo fa come se stesse girando uno spot, è perché inevitabilmente ha le spalle coperte. Ha qualche santo in paradiso che lo tutela. E io non sono cattolico. Santi non ne ho che mi guardano le spalle. Ho solo questi quattro animali dietro. Moglie e figli a casa che da ora in poi devo proteggere.
Sono arrabbiato. Con l’istituzione politica a cui mi sono rivolto. Abbindolato dai suoi proclami farlocchi su legalità e cultura. Con l’autorità. Avrebbero dovuto tutelarmi, avrebbero dovuto sfruttare il mio spunto per compiere il loro dovere. E invece, quasi come se nulla fosse, hanno lasciato che tutto fosse trattato con superficialità.
Autorità e istituzione Che mi sono sempre “sforzato” di rispettare.
Sì, sforzato.
Perché secondo la mia logica, la mia educazione, l’autorità e l’istituzione non sono necessarie se una persona nasce in un ambiente che lo educa al rispetto delle cose e delle persone, al senso di comunità, alla collaborazione e al confronto.
Se autorità e istituzione quando devono intervenire lo fanno in maniera ferma e decisa. E non una tantum, pubblicizzandosi come l’aver fatto chissà che cosa, quando alla fine è il loro lavoro. Non la loro eccezione: combattere i criminali.
Sono schifato. Perché a mezzo secolo di vita, mi rendo conto di aver sbagliato su alcuni passaggi fondamentali della mia vita. Ma non posso cambiare rotta. Non sono più solo. E come non sono stato egoista quando ero solo, non lo devo essere ora, dove dalle mie scelte, ne risentono gli stili di vita di altre 4 persone.
Tutto questo in pochi minuti.
Tutto finisce.
Mi riaccompagnano a casa. Appena davanti al mio portone, tiro un grosso respiro.
Non so se si sono bevuti la mia versione dei fatti.
Rientro in casa. Tolgo la giacca.
Mia moglie non dice nulla ma mi guarda con gli occhi sbarrati. Hanno finito di cenare ma vedo il suo piatto sulla tavola, ancora pieno, come quando sono uscito di casa. I bambini sono a letto.
“Amore sono molto stanco”. E vado a dormire. Poco dopo mia moglie arriva nel letto e mi abbraccia.
Vorrei piangere, ma non posso. Né ne ho la forza, ora. Eppure sono restato con gli occhi aperti tutta la notte a guardare il soffitto.
Il giorno seguente, esco di casa per andare al lavoro. Eccolo lì, “il potente” del quartiere.
All’angolo della strada. Quasi come un cane bastardo, a segnare il territorio.
Accenna un saluto. Continua nei suoi illeciti. Ha vinto.
Sono passate 24 ore. Per me sono anni.
Ma io sono ancora molto arrabbiato. Saluto con la testa anche io.
Vado via.
“Continuare a voler riempire di acqua uno scolapasta, è da stupidi”.
Me lo ripeto per tutto il tempo”.