Da Città Democratica riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Un partito di sinistra forte e pluralista è la miglior risposta politica a questi tempi di estrema desolazione.
Stupisce che sia Città Democratica a dirlo? Noi che dieci anni fa abbiamo scelto di stare fuori dal “pantano” del primo PD? Noi che abbiamo sempre scelto, anche per queste amministrative, di andare dove vogliamo?
Anche noi abbiamo commesso degli errori di valutazione. Anche noi siamo stati tentati dall’autorappresentazione. Non additiamo nessuno, oggi. Non giudichiamo. Non censuriamo. Desideriamo assumerci le responsabilità che la maturità del nostro gruppo ci impone.
La ricerca della strada solitaria si può giustificare solo dopo aver constatato di fatto che nell’unità non sia più possibile perseguire gli obiettivi comuni, se non a patto di una drastica e insopportabile decurtazione di sovranità individuale.
Ora, applicando uguale metodo a questioni più ampie, dobbiamo constatare che la crisi della sinistra non è la crisi di un nome, o di una struttura. E forse non è nemmeno la crisi di un’idea, di un concetto. La crisi della sinistra è prima di tutto una crisi di comunicazione, di cultura politica. Comunicazione tra rappresentati e rappresentanti, cultura del mondo contemporaneo.
Nella sempre più tecnicistica dimensione istituzionale, come rinchiusi in una bolla di vetro insonorizzata, i politici di sinistra hanno smesso di avere contatti con i loro elettori. Al loro ritorno, se e quando si verificherà, troveranno tutta un’altra storia. Intanto il mondo è cambiato, fino nel profondo: nelle case, nelle stanze, nell’anima degli uomini e delle donne. Pensiamo al lavoro, il tema della sinistra per eccellenza. Anni fa il sociologo francese Alain Touraine scriveva su Micromega: “Parliamo più di disoccupati che di lavoratori, di esclusi più che di sfruttati, e cerchiamo più nelle scuole che nelle botteghe gli strumenti più efficaci per combattere la disoccupazione.” Come rendere compatibile la cultura politica della lotta alla tecnocrazia e all’organizzazione del lavoro, al suo sfruttamento, con lo scenario contemporaneo della “fine del lavoro”, tanto per citare J. Rifkin? Il posto del lavoro nella vita dei cittadini italiani è dunque cambiato senza che i partiti politici se ne siano accorti, o abbiano maturato idea di come sostenere le nuove domande d’aiuto e di risoluzione comune ai problemi che si pongono. A questa analisi bisognerebbe attribuire molta più importanza di quanto non si faccia.
Su questo alcune posizioni assunte dalla cosiddetta minoranza PD in questi giorni sono senz’altro condivisibili. Intendiamo dire che l’esigenza di celebrare un congresso d’indirizzo politico e non di semplice ricambio o conferma della leadership è sacrosanta. Invocare un congresso per discutere sulle politiche ambientali del PD (dopo l’assurdo del referendum sulle trivelle), o sulle politiche scolastiche (dopo la fallimentare 107) o sul lavoro (dopo il divisivo job’s act), è quello che un partito socialista e democratico insieme deve assolutamente fare per ritrovare il dialogo con la propria gente.
Nient’affatto condivisibile è però la minaccia di scissione. Perchè andrebbe a sancire il fallimento di un progetto mai tentato pienamente, ovvero quello di riunire le forze effettivamente democratiche di questo paese, così come la storia del novecento ce le ha consegnate. Forze che hanno creduto e credono nella risoluzione parlamentare dei conflitti, che credono nella democrazia. Paventare il rischio di scissione lascia pensare che una certa classe politica del PD non accetti per se stessa quel centralismo democratico di cui s’è fatta in altri momenti attenta e scrupolosa sostenitrice. Bisogna accettare e fare i conti con la condizione attuale di minoranza, sapendo proiettarsi in una dimensione dinamica, dialettica e pluralista del partito. Al nostro Paese serve un partito, l’unico davvero tale, capace di fare sintesi al proprio interno delle dirompenti contraddizioni dell’oggi, ma che si ripresenti compatto a Berlino, a Parigi, a Bruxelles, a Strasburgo, a Londra, a Mosca, a Washington, a Pechino. La frammentazione è la risposta peggiore allo strapotere dei poteri forti transnazionali.